Erano forse raccolti in una delle sale, nascosti dal vapore, mentre nel bagno turco «Porta del mare» del quartiere Ramsis, nel centro del Cairo, la musica shaabi a tutto volume calcava il giorno di festa. A quel punto è entrata la polizia che ha costretto gli uomini semi-nudi, coperti solo da un piccolo asciugamani, a uscire a gruppi dall’hammam. 33 persone sono state arrestate e detenute con le accuse di «dissolutezza» (l’omosessualità non è illegale in Egitto): la più grande retata anti-gay nella storia egiziana. Un caso simile risale solo all’11 maggio 2001, quando ufficiali della polizia e della sicurezza di Stato hanno fatto irruzione sulla «Queen Boat», imbarcazione ancorata sul Nilo, e hanno arrestato oltre cinquanta persone. Era noto che si tenessero lì feste a cui prendeva parte la comunità omosessuale del Cairo. L’accusa mossa contro alcuni degli arrestati è stata di prostituzione maschile. Secondo testimonianze raccolte da alcuni attivisti per i diritti umani, anche in quel caso gli imputati sono stati umiliati fisicamente e psicologicamente.

Lo stesso è avvenuto con gli uomini, scortati in gruppo, fuori dall’hammam di piazza Ramsis, come in un girone infernale, dalla polizia cairota. «Mi terrorizza sapere di essere l’obiettivo di media e polizia per il solo fatto di essere gay», ha commentato Ahmed, attivista per i diritti lgbt. «Sono stato spesso in quell’hammam e non ho mai visto le scene che sono state raccontate dai media», ha aggiunto il giovane. «È un luogo di ritrovo per chi non può permettersi club esclusivi, non ho mai visto scene di sesso in quelle stanze», ha proseguito.

Ma il condimento sadico che rende questa vicenda agghiacciante nella sua crudeltà è il Truman Show che l’ha innescata e ne è seguito. La giornalista Mona Iraqi ha ripreso infatti con la sua videocamera la scena che è stata ripetutamente mostrata dalla televisione pubblica egiziana. Nel mandare in onda le immagini degli uomini che venivano fatti salire sui camioncini della polizia, come dei deportati, la giornalista ha annunciato che per la prima volta nella storia delle televisioni arabe, avrebbe mostrato la polizia morale mentre «reprime il più grande covo di sesso maschile di gruppo» nel cuore della capitale: uno spettacolo vietato ai minori di 18 anni.

Iraqi ha anche assicurato quanto la campagna anti-gay avesse l’innocente scopo di colpire la diffusione dell’Aids tra la comunità omosex in Egitto. In verità, i casi di Hiv in Egitto sono davvero poco frequenti (11mila in tutto il paese secondo l’Unicef), nonostante una pervasiva propaganda di regime che obbliga tutti gli stranieri che vivono e lavorano nel paese a essere sottoposti a test per verificare la presenza del virus nel sangue. Secondo alcune ricostruzioni sarebbe stata la stessa Iraqi a chiamare la polizia per mettere fine a quelle scene di «perversione».

Non solo la spettacolarizzazione televisiva della retata ha messo in serio pericolo gli uomini arrestati perché la pratica omosessuale è diffusamente stigmatizzata in Egitto, ma dimostra anche lo stretto accordo tra media pubblici e forze di sicurezza dopo il golpe del 2013. Tant’è vero che 400 giornalisti non allineati hanno firmato una lettera contro la retorica governativa che impedisce alla stampa di descrivere chiunque manifesti il dissenso al regime, perché sono considerati tutti terroristi.

Ormai sono oltre cento gli omosessuali nelle carceri egiziane. Alcuni hanno subito sentenze esemplari. I militari, al potere dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013, si sono presentati come un baluardo contro le politiche conservatrici dei Fratelli musulmani, sebbene gli islamisti non abbiano mai represso la comunità lgbt in Egitto come sta avvenendo in questi mesi. Lo scorso novembre, otto uomini sono stati condannati a tre anni di detenzione con le accuse di dissolutezza, perché apparivano in un video che, secondo il giudice, rappresentava un matrimonio omosessuale su una barca sul Nilo. Secondo l’avvocato per i diritti umani, Mohammed Bakir, non c’era nessuna prova che si trattasse del video di un matrimonio, come hanno sempre sostenuto gli imputati. Anche in questo caso, gli uomini, sottoposti a test anali per definire le loro preferenze sessuali, sono stati filmati dalle troupe della televisione egiziana durante il loro arresto.

Un altro esempio di collusione simbiotica tra polizia e media è venuto da storie di omosessuali pubblicate dal quotidiano Youm7. Mostrare la polizia in opera, soprattutto nella repressione di pratiche «moralmente deprecabili», è ormai uno dei passatemi dei media pubblici, dopo il logo montato 24 ore su 24 per giustificare la repressione, come «lotta al terrorismo», architettata dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, dopo la deposizione dell’ex presidente Mohammed Morsi del 3 luglio 2013. La scorsa estate, il quotidiano Youm7 ha pubblicato foto di un raid in una casa dove viveva un gruppo di transgender, lasciando che i loro volti rimanessero visibili. Il giornale riportava che uno degli arrestati avrebbe confessato di essere stato violentato da bambino e questo lo aveva spinto a desiderare di vestirsi come una donna. Qualche giorno dopo, lo stesso quotidiano ha pubblicato paginate sugli effetti devastanti sulla società causate dall’omosessualità, definito un «fenomeno pericoloso», diffusosi con le rivolte del 25 gennaio 2011. Dal golpe in poi, decine di giovani sono stati arrestati semplicemente per aver preso parte a feste, considerate gay. Molti di loro sono stati cacciati di casa e hanno perso il lavoro.

Gli egiziani hanno spesso dovuto trovare luoghi isolati, bui o poco frequentati per vivere la propria omosessualità. Tra i posti dove sono comuni gli incontri tra uomini ci sono proprio i pochi e antichi hammam rimasti nella città antica, dal souk del quartiere Bab el-Louk all’antichissimo bagno turco di Bab Shareya. Altro tipico luogo di incontro sono i cinema di quartieri disagiati. A Boulaq Abul-Ela, nel buio di un antico cinema, si attardano decine di giovani e anziani che entrano alla rinfusa. Ci pensano ora le telecamere della televisione di regime a rivelare questi ultimi spazi di libertà, come se si trattasse della battaglia esiziale di militari che hanno bisogno di moralità per legittimare la più cruda brutalità.