È dal 2017 che l’Ong tedesca Urgewald, insieme a oltre 20 realtà della società civile internazionale, tra cui l’italiana ReCommon, fa i conti in tasca alle banche e ai fondi di investimento più importanti in merito al loro sostegno al settore carbonifero. Si tratta del combustibile fossile più inquinante e responsabile dell’attuale crisi climatica. I dati di quest’anno sono tutt’altro che incoraggianti, quasi a voler sbugiardare il dilagante greenwashing.

In base a quanto raccolto dalla ricerca, denominata Global Coal Exit List, risulta che nel 2021 le istituzioni finanziarie hanno investito oltre 1.200 miliardi di dollari nell’industria del carbone. Un aumento molto preoccupante rispetto al 2020, quando i soldi investiti superavano di poco 1.000 miliardi.

Sul fronte dei finanziamenti (prestiti e sottoscrizioni), le banche di soli 6 paesi – Cina, Usa, Giappone, India, Regno Unito e Canada – sono state responsabili dell’86% delle operazioni finanziarie a favore dell’industria del carbone. Un totale di 376 banche commerciali hanno fornito 363 miliardi di dollari sotto forma di prestiti al settore. Solo 12 banche contano però per il 48% del totale dei prestiti alle società presenti nel Global Coal Exit List. Guidano questa poco onorevole classifica le tre banche giapponesi Mizuho Financial, Mitsubishi UFJ Financial e SMBC Group, seguite da Barclays (Regno Unito) e Citigroup (Stati Uniti). Nello stesso periodo, i tre istituti più esposti in termini di sottoscrizione di bond sono la Industrial Commercial Bank of China, la China International Trust and Investment Corporation e la Shanghai Pudong Development Bank. L’unica banca non cinese tra i primi 12 sottoscrittori è la JPMorgan Chase (Usa).

Le due più importanti banche italiane, Intesa Sanpaolo e UniCredit, non sono «state a guardare». Fra il 2020 e il 2021 hanno aumentato sensibilmente il loro sostegno all’industria del carbone. L’istituto torinese ha quadruplicato i suoi finanziamenti tra il 2020 e il 2021, da 449 milioni a 2,1 miliardi di euro, mentre quello di piazza Gae Aulenti cresce da 1,36 a 1,71 miliardi di euro. Stesso trend per gli investimenti, soprattutto quelli della prima banca italiana: da 778 milioni a 1,35 miliardi di euro tra il 2020 e il 2021.

La crescita di Intesa Sanpaolo è stata trainata soprattutto dalla sottoscrizione di bond (sestuplicata tra 2020 e 2021), modalità di finanziamento tra le meno regolate in circolazione, dal momento che le società dell’industria fossile possono impiegare i proventi legati ai bond per scopi generici, il più delle volte il proprio core business. Tra i finanziamenti, spiccano i 120 milioni di euro alla sudafricana Sasol e, soprattutto, i 200 milioni alla tedesca RWE, società più inquinante d’Europa.

Anche UniCredit ha intensi rapporti commerciali con Sasol (136 milioni di euro) e RWE (226 milioni). Il gruppo non sembra intenzionato ad abbandonare definitivamente il carbone, come confermato dall’analisi dei dati finanziari e dalla nuova policy, adottata pochi giorni fa, con cui UniCredit ha rivisto al ribasso i propri impegni di disinvestimento nei confronti del settore.

«I dati del 2020 delle due principali banche italiane sembravano indicare un trend al ribasso rispetto all’esposizione finanziaria al carbone. Quelli aggiornati sono uno schiaffo a chiunque si impegni per la crisi climatica», ha commentato Simone Ogno di ReCommon. «I ridotti prestiti al carbone da parte di Intesa Sanpaolo nel 2020 non erano quindi dettati dall’azione climatica, bensì la fotografia di un comparto fermatosi all’inizio della pandemia. Come fa la prima banca italiana a definirsi leader della sostenibilità se nel 2022 stiamo ancora a parlare della sua crescente esposizione al più inquinante dei combustibili fossili?».