Con i militari turchi fotografati sulle motovedette libiche donate dall’Italia, è sorto nel Mediterraneo il SultaNato di Erdogan, un’entità che si allunga dalle coste turche a quelle del Nordafrica. E che fonde le aspirazioni neo-ottomane di Ankara con un nuovo ordine gerarchico nell’Alleanza Atlantica, almeno per quanto riguarda le acque del Mediterraneo.

Il reiss turco può dire di controllare una parte fondamentale dei confini marittimi e dei flussi migratori – oltre che condizionare la gestione delle risorse – sia nel Mediterraneo orientale che in Libia davanti alla Tripolitania. Si tratta di un evoluzione preoccupante per l’Italia che ha sempre ritenuto l’appoggio economico e l’addestramento della Guardia Costiera un elemento chiave della sua politica estera, tanto è vero che con il decreto missioni di luglio era stata aumentato a 10 milioni di euro il finanziamento più discutibile dei nostri governi. La Guardia costiera libica, come ha dimostrato l’arresto del trafficante di esseri umani Bija, è stata complice in questi anni delle più feroci violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti. E a sua volta l’Italia è stata complice di questi crimini negoziando direttamente con Bija, ovvero Abdul Raman al Milad, un mafioso al quale abbiamo permesso di minacciare di morte giornalisti come Nello Scavo e Nancy Porsia.

Il «lavoro sporco» sui migranti cade adesso sotto la supervisione di Erdogan che ha salvato Tripoli dalle milizie del generale Haftar mettendo in campo i suoi militari, i mercenari siriani e i droni. A qualcuno questa potrebbe sembrare una via di uscita: del «problema» se ne occupano i turchi che lo gestiranno alla loro maniera, senza fare troppo caso alle violazioni dei diritti umani dei profughi trattando direttamente con milizie, tribù e trafficanti. È così che si ragiona dalle nostre parti pensando di essere dei maestri della realpolitik. Per questo fa un po’ amaramente sorridere che la ministra degli Interni Luciana Lamorgese, incontrando il suo omologo libico Fathi Bashaga, abbia espresso l’esigenza di gestire i flussi migratori «nel rispetto di diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare e in terra». Bashaga d’accordo con la Turchia sta spostando i centri di detenzione lontano dalla costa: lo scopo è far sparire il problema dal radar europeo e riproporlo soltanto nel momento in cui facesse comodo riaprire i rubinetti dei flussi migratori.

È evidente che Erdogan avrà qualche arma in più di ricatto non soltanto nei confronti dell’Italia ma anche della stessa Europa che con il nuovo patto sulle migrazioni voluto da Ursula von der Leyen ha come obiettivo rafforzare proprio i confini esterni dell’Unione. Peccato che per attuarlo dovrà trattare ancora con Erdogan, che già tiene in pugno l’Europa sulla rotta dell’Egeo tenendosi in casa, lautamente pagato da Bruxelles, tre milioni di profughi. Una situazione considerata «critica» che ha spinto Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, a dotarsi pure di droni israeliani Heron per un affare da 100milioni di dollari.

Del resto l’Unione si è già arresa a Erdogan con la missione navale Irini che avrebbe dovuto far rispettare l’embargo del traffico d’armi, senza peraltro entrare nelle acque territoriali libiche. Qualche mese fa una nave turca diretta a Misurata non è mai stata fermata e ispezionata, perché da Roma, che ha il comando della missione, era giunto l’ordine di non muoversi se non dietro esplicito consenso dei turchi. E quando l’Unione ha congelato i beni della compagnia Avrasya Shipping, il cui cargo Cirkin è stato utilizzato per trasportare armi e mercenari in Libia – oltre a essere stato al centro di un incidente navale tra Grecia e Turchia – Ankara ha fatto sapere di ritenere la missione Irini illegale. Il Sultano della Nato si ritiene la «cassazione» del diritto internazionale.

Erdogan, anche con la Guardia costiera, tiene Tripoli sotto la sua ala. L’Italia qui è vista dalla Turchia come un fastidioso incidente di percorso nel progetto di ricostruire la sua «Patria Blu». Mentre arrivavano a Roma i maggiorenti del governo di Tripoli – prima Bashaga, poi Sarraj con il ministro degli esteri Siala – i turchi hanno diffuso, oltre alle foto dei loro militari sulle motovedette, un’immagine del giovane Ataturk, fondatore della Turchia moderna, mentre guida la resistenza contro gli italiani nel 1911. L’anno seguente l’Italia avrebbe strappato all’impero ottomano anche il Dodecaneso.

Il messaggio di Ankara è chiaro: vuole la rivincita su un secolo di storia, quando Ataturk fu costretto alla ritirata. E così, dopo avere assestato uno schiaffo all’Italia, Ankara ne ha mollato un altro a Grecia, Cipro ed Egitto, che avevano appena tenuto un vertice sul gas offshore, estendendo fino a martedì la missione della nave da ricerca Oruc Reis nelle acque contese del Dodecaneso di Kastellorizo. Ormai il SultaNato ha arruolato anche Ataturk facendo finta di «liberarci» (in apparenza) dai profughi: cosa possiamo volere di più in epoca di Covid?