Serata di fine settembre, stadio di San Siro. Anno 1995, Milan stellare ed Inter piccolina. Si gioca Inter –Lugano, partitaccia di Coppa Uefa che –persa all’ultimo minuto dai nerazzurri, contro ogni logica- segna uno dei punti più bassi della storia della squadra. Metà del primo tempo: una palla vagante a metà campo, un ragazzo argentino con il caschetto nero un po’ impacciato che cerca di difenderla, il difensore svizzero che entra senza pietà e lo stende.

E poi un urlo fortissimo, munchiano, l’”ahhh!” fantozziano più forte che abbia mai sentito: tutta roba del centravanti Sebastian Rambert, classe 1974, detto Avioncito, presunto goleador arrivato da fenomeno e trasformatosi rapidamente nel paradigma del bidone. A San Siro, di Rambert, si ricorda ancora e soprattutto quel grido spaventoso. Pensare che solo pochi mesi prima (è il 5 giugno del 1995) tutte le telecamere e i fotografi che affollano la Terrazza Martini –snodo fondamentale della decadente Milano da bere e strepitoso set fotografico- sono tutte per lui.

Ad esaltarne le doti c’è Giacinto Facchetti, icona del calcio mondiale, riaccolto nella dirigenza dell’Inter dal nuovo proprietario Massimo Moratti, che sogna di rinverdire il bianco e nero della Grande Inter del padre Angelo. Quasi laterale, sul tavolone, c’è anche un altro ragazzo argentino, ventiduenne, con lo sguardo timido e l’aria di quello arrivato sulla terrazza quasi per caso. E’ messo di lato, quasi a non voler disturbare.

Le attenzioni per lui sono poche: somiglia al terzo fustino di detersivo preso in omaggio con gli altri due, una notizia positiva, ma in fondo il dettaglio di un affare già ben riuscito. Si chiama Javier Adelmar Zanetti. Gioca a calcio in difesa, e il soprannome El Tractor –immenso omaggio alla fantasia dei commentatori latinoamericani- se l’è guadagnato al Banfield, piccola squadra argentina, per via della strapotenza atletica e di quelle sgroppate un po’ anarchiche a cui ha abituato il suo pubblico.

Sembra destinato ad andare in prestito per farsi le ossa e al primo ritiro in montagna si presenta con una sporta del supermercato: dentro solo le scarpette da calcio, chè –in fondo- per allenarsi non serve altro. Cosi, i destini di Rambert e Zanetti sembrano usciti dagli incroci di una pellicola americana, quelle caramellose alla Sliding Doors.

L’Avioncito, il presunto fenomeno, non si fermerà a Milano nemmeno in tempo per il panettone e secondo Wikipedia ha chiuso la carriera da quasi dieci anni, dopo aver girovagato tra Spagna, Grecia ed Argentina, martoriato da una quantità di infortuni; Zanetti, quello che doveva essere il pacco, è diventato un idolo globale e il simbolo dell’Inter nel mondo, il capitano che ha tritato ogni record di presenza ed appartenenza (851 gare con 20 gol) e che festeggia quarant’anni da infortunato –l’unico serio guaio della sua carriera, al tallone d’Achille, rimediato pochi mesi fa- chiedendo per regalo un’ultima partita, anche una sola, per salutare i suoi tifosi.

L’avrà, la merita, e forse ci sarà anche un altro campionato intero per un lungo arrivederci. Scrive bene Ivan Tresoldi, writer milanese, quando dedica a Zanetti un muro vicino a San Siro. “Ci sono vite che capitano e vite da Càpitano”. Oltre al calembour c’è una architettura di destini complessa.

Nel 1995 –andavano molto Eros Ramazzotti e il brit pop- Javier cominciò come Tractor, per via di quell’incedere unico e del fatto che arrotasse campo e avversari, anarchico e a testa bassa, quasi un Don Chisciotte solo contro tutti; mentre i cd diventavano mp3 e giravano Eminem e Biagio Antonacci divenne Pupi, come la sua fondazione che si occupa di bimbi argentini in difficoltà (Por Un Piberio Integrado), un acronimo adottato come nomignolo affettuoso;e oggi, in quest’epoca di musica confusa in cui gli anni ’90 ripiombano in pettinature e vestiti, resterà Capitano.

Quasi un monarca nerazzurro, un po’ cannibale -non si contano terzini e centrocampisti acquistati per sostituirlo e spariti nel dimenticatoio in un batter di ciglio-, un po’ trait d’union tra il calcio antico e quello ipertrofico di oggi: pochissimi come lui restano a vita in una squadra, ne percepiscono i colori e l’essenza, sembrano “poster” in movimento e –dettaglio estetico e sentimentale non indifferente- non hanno nemmeno un tatuaggio celebrativo. La storia di Zanetti è intrisa da questa diversità e da un amore a prima vista con i suoi tifosi, gli stessi in grado di bruciare campioni di rango per un calo di forma o brevi passaggi a vuoto: il dribbling infallibile –quei cori, “Dribbla come Pele!”-, il pallone perennemente incollato al piedone, il non saltare mai una partita, un’etica esagerata per il lavoro (“mi sono allenato tutti i giorni, anche la mattina del matrimonio”) a fronte di una generazione di colleghi velinomani e discotecari.

In sostanza, un ragazzo felice di fare il calciatore –a quattordici anni aiutava il padre, muratore- che sogna di continuare il più a lungo possibile, e che non condivide la svogliatezza di molti ricchi colleghi dall’aria sempre triste e incazzata. I muscoli del Capitano ma anche lo stile, in una progressiva identificazione culturale con l’Inter e le sue alterne fortune.

Zanetti è stato spesso la guida di una squadra sbandata, derisa quando non derubata –l’interismo divenne sinonimo di paura di vincere e di sostanziale inettitudine-, e riscattata da successi a ripetizione culminati con la Tripletta (Coppa Campioni, scudetto e Coppa Italia) del 2010, impresa unica nella storia del calcio italiano. Sollevò la Coppa, a Madrid, e nell’abbraccio dei compagni gli uscì una mezza linguaccia in un sorriso apertissimo.

Una specie di riscatto per chi è stato sempre descritto come troppo buono, onesto e gentile, concetto che a Milano gli sbrigativi abbreviano –con supposta soddisfazione- in pirla. Colpisce la vicinanza ideale con Giacinto Facchetti: stessa maglia, stessa prestanza fisica, una sola donna nel cuore e una famiglia numerosa intorno, stessa riconosciuta signorilità e poche trasgressioni, perfino una passione non nascosta –e questa non sempre apprezzata- per il canto.

Prima di una campagna di equiparazione al sistema moggiano rapidamente declinata di fronte all’inconsistenza di accuse ed accusatori, attorno a Facchetti c’era totale unanimità. Una marca comune ai grandi dello sport, capace di superare ogni barriera tifosa per trasformarsi in patrimonio collettivo. Succederà anche a Zanetti, in virtù di un’abitudine irresistibile.

La descrisse bene proprio Facchetti. “Se si deve essere un esempio per gli altri ci si deve comportare bene. Quando andavo all’oratorio non bastava essere bravi per giocare, ci si doveva anche comportare bene. Poi diventa un’abitudine”. Quarant’anni per un calciatore sono un tempo enorme, fuori media, un ottomila, un periplo che solo pochissimi hanno raggiunto e doppiato.

Dipendesse dalla sua voglia di non smettere, Zanetti sarebbe uno spot alla riforma Fornero; scorrere tutte le figurine della sua carriera –stessa posa, stesso ciuffo, stesso sorriso – è un esercizio di nostalgia che avvicina il tifoso al calciatore, come il tempo trascorso insieme. Lo incontrassi oggi gli proporrei un viaggio in tram, come fece Beppe Viola con Gianni Rivera. Direzione San Siro. Quei tram lunghissimi che senza partita si svuotano verso la periferia, gonfi come botti, invece, la domenica.

Descrivergli l’attesa per l’arrivo allo stadio, i gruppetti di anziani supporter che tromboneggiano -“Zanetti non passa mai la palla e poi è invecchiato…”- ma che al suo primo scatto tambureggiano come ultras, i bambini eccitati che poi a San Siro forse si annoieranno –“ma quando segnano, papà?”, i giapponesi spaesati e gli indonesiani che verranno, quella bella mescola generazionale tenuta insieme dalla propria squadra, e anche da un pizzico di orgoglio. Raccontargli che attorno alla sua maglia (numero 4) e a quelle sue sgroppate c’è un pezzo della nostra vita e delle nostre domeniche, e che un po’ del nostro tempo è trascorso assieme.

I suoi quarant’anni sono un po’ anche i miei trenta, i sessanta di papà e il ricordo di domeniche e amici lontani. Chiedergli solo questo: se correndo verso il suo destino, dribblando avversari e tritando record abbia mai trovato il tempo di accorgersi di noi, sugli spalti, che siamo invecchiati con lui.