Ho incontrato Piero Gelli nell’inverno del 1958 a Firenze, dove vivevo da poco più di un anno in un minuscolo spazio – non lo si poteva dire appartamento – accanto alla chiesa di Santa Felicita, che ospita uno dei quadri più belli e più tristi del mondo, la Discesa dalla Croce del Pontormo. Piero era del 1938, io del ’36. Io venivo da L’Avana ed ero a Firenze per finire l’università: non aveva ancora vinto la rivoluzione di Castro ma nella mia città non si poteva studiare più. Piero era di Sesto Fiorentino e mi venne presentato da un suo conterraneo, Giovanni Conti, oggi antiquario famoso sul Lungarno ma allora della nostra età e apprendista assai originale presso un negoziante molto noto, il vecchio Bruzzichelli. Siamo dunque stati buoni amici per più di sessant’anni. Amici a tre, perché fin da allora Piero girava col suo compagno di sempre, Carlo Pieri, uomo originale che aveva idee diverse da tutti, né mai ha sognato di cambiarle. Piero, dunque, e Carlo. Quando si seguono due persone per tutta la vita sembra che siano state sempre uguali e nel loro caso così era.
Piero era un ottimo accademico, erudito in molti campi diversi – da Gide a Verdi, da Leopardi a Wagner, filologo e musicologo. Contrariamente a me era di buon carattere, leggero e delicato ma anche molto ironico, talvolta pungente, quasi sempre accomodante, mai rancoroso. Vorrei definirlo buono ma forse non è il termine giusto. In questo particolare si avvicinava ad Alberto Arbasino, che ognuno di noi conobbe subito per proprio conto (io dai Longhi, Piero credo da Piero Bigongiari e sua moglie Elena). Di Alberto e di Piero raramente sapevi quel che pensavano, qualche volta, solo se stavi attento, riuscivi a indovinare quel che sentivano.
Piero era incline alla mediazione: persino in quei tempi remoti riusciva a farlo con individui più emotivi di lui – come me –, mantenendo sempre un certo distacco amichevole. Ma gli riusciva anche con personaggi più complessi, come Luigi Baldacci: li presentai e andarono sempre sulla stessa strada, e il fatto mi sorprese. Gigi, brillantissimo, era l’assistente di Giuseppe de Robertis, e lo conobbi sùbito dovendo sostenere con lui un esame per me molto difficile di letteratura italiana. L’amicizia fra Piero e Gigi veleggiò serena in un mare calmo, mentre la barca di Gigi e quella mia raramente riuscivano a entrare nello stesso porto. Altri tre amici di università, Antonio Paolucci, Silvia Servi, Luciano Bellosi, studiavano con noi.
Con Piero era impossibile litigare, con me facilissimo. Era pacifico dunque, fedele nonostante la leggerezza d’animo, misurato ma generoso e di una impeccabile chiarezza intellettuale. Per lunghi anni fu il mio dizionario ambulante, soprattutto come filologo e supremo conoscitore della lingua italiana. Mi aiutò nella lunga battaglia della mia vita: come riuscire a scrivere in una lingua vicinissima e remota dal mio spagnolo. Credo di non essere mai riuscito ad attraversare questo ponte pericoloso e traditore. Il risultato di questa guerra è stata una doppia privazione: ho perso lo spagnolo senza conquistare l’italiano nonostante l’aiuto di tre maestri eccezionali – Piero fu il primo.
Quegli anni di Firenze, dal ’58 al ’62, cambiarono la mia vita, sia i sentimenti sia il mestiere, e in quello stesso tempo l’esistenza di Piero mutò. Leggeva di continuo – in treno, dal dentista, nelle anticamere, nelle università, nei metró di Milano, nei tram di Firenze. Lèggere e ascoltare, parole scritte e parole cantate, e sùbito parlare di parole e parlare di note. Giudicava, ma preferiva condividere che insegnare; sapeva anche ridere, qualche volta con sarcasmo, ma era più schietto nell’ironia. Solo negli ultimi anni, e per pochi istanti, alzava la voce, per finire sùbito sorridendo, da solo. Era al suo meglio quando metteva in grassetto le qualità di un artista (o di un amico), ammettendo solo sottovoce le mancanze dell’uno o dell’altro. I suoi molti interventi critici riflettono il suo carattere.
Costruì insieme a una cinquantina di collaboratori un inimitabile Dizionario dell’opera (Baldini & Castoldi 1996), riassumendo in una paginetta, con la trasparenza che lo distingueva al suo meglio, tutto quel che c’era da dire per spiegare come utilizzare quel magistrale vademecum. Quando ci siamo conosciuti da ragazzi credo che abbiamo parlato quasi sùbito di André Gide: qualche anno fa ha curato per Bompiani l’edizione italiana degli sterminati diari dello scrittore e, quel che è ancora meglio, ha scritto un lungo saggio che spiega mirabilmente quell’uomo complesso e aspro che entrambi amavamo, sia pur in modi diversi.
Da pochi giorni Piero non è più con noi, ma l’anima tarda a lasciare il corpo. Ci ritroveremo al Cairo, in Siria o, meglio, ad Alessandria, dove non riuscimmo mai ad andare insieme.