La pratica più controversa dell’allevamento delle pecore Merino, diffusa in Australia, è il mulesing (dal nome di chi la mise a punto, tale John Mules, negli anni Trenta). Consiste nell’asportazione, il più delle volte senza anestesia, della pelle perianale degli agnelli: in questa zona, attirate dalla presenza di feci e urina che sporcano la lana, si annidano sottopelle le larve di insetti parassiti (flystrike) che provocano miasi, cioè infezioni che possono essere letali per gli animali.
L’asportazione crea una estesa cicatrice sulla quale la lana non cresce più e i parassiti non riescono a penetrare. Come se non bastasse, il mulesing viene spesso affiancato dal taglio della coda, giustificato da necessità igieniche.

In Australia, dove si produce l’80% della lana Merino mondiale, secondo i dati di Peta (People for the Ethical Treatment of Animals), viene praticata dall’80% degli allevatori su 30 milioni di agnelli ogni anno.

In Europa il mulesing è vietato, e del resto non sarebbe necessario visto che quel genere di parassiti non è presente, così come non rappresenta un rischio negli allevamenti del Sud America.

In Nuova Zelanda, dove invece il rischio di miasi è endemico come in Australia, il mulesing è stato vietato dal 1 ottobre 2018, dopo una lunga fase di transizione iniziata nel 2007 per consentire agli allevatori di adeguarsi e di sperimentare cure alternative.

Malgrado la pressione dell’opinione pubblica e le campagne delle associazioni animaliste, la potente lobby degli allevatori australiani (sono 60 mila, in un paese che alleva 70 milioni di pecore) considera impraticabili metodi alternativi, che pure esistono, come il controllo dei parassiti con insetticidi, maggiore cura dell’igiene, trattamenti all’idrogeno liquido, simili quelli praticati per l’asportazione delle verruche, meno doloroso ma senz’altro più costoso, oppure la selezione genetica di animali con la pelle meno grinzosa, quindi meno aggredibili dai parassiti (ma anche meno produttivi perché meno pelle equivale ad un minor numero di follicoli della lana). Australian Wool Innovation ha allo studio un vaccino, ma ci vorrà del tempo.

In Australia qualcosa si muove, da quando, con l’introduzione dei marchi etici come il Responsible Wool Standard (RWS), alle aste la lana certificata no-mulesing spunta prezzi migliori. Lo scorso anno, inoltre, due colossi della moda australiana, Country Road Group e David Jones, hanno annunciato che dal 2023 acquisteranno solo lana certificata no-mulesing.

Il dibattito è all’ordine del giorno in Australia, ma una messa al bando per via legislativa è complicata dal fatto che la competenza non è del governo federale, ma dei governi statali che stentano a trovare un accordo.

L’invito di Peta Australia è di non comprare per nulla capi in lana, nemmeno quelli con la certificazione RWS che, se garantisce il no-mulesing, invece ammette in alcuni casi altre pratiche cruente, come il taglio della coda o la castrazione degli agnelli che non siano ritenuti idonei alla riproduzione, per praticare la selezione genetica.

Del resto, di allevamento intensivo stiamo parlando, dove la logica produttiva vuole che la carriera di un pecora Merino si interrompa dopo 6 o 7 anni di servizio: quando la lana comincia a diventare più fragile e le fibre tendono a spezzarsi, le pecore non vengono più tosate ma mandate al macello per la produzione di carne. Le più fortunate sono macellate in Australia. Altre, un milione all’anno, vengono imbarcate vive su navi per raggiungere l’Asia, dopo alcune settimane di navigazione in condizioni indescrivibili.