Mito atavico di perenne attualità, la foresta era per Elias Canetti intimamente associata alla violenza, all’esercito in marcia, che avanza e distrugge ciò che si oppone al suo incedere. La foresta come forza sovrumana che fagocita il singolo e lo annulla. La foresta come dissoluzione dell’individuo nella massa e insieme come protezione dall’esposizione solitaria e fragile alla violenza del nemico.
L’immagine della foresta sovrasta anche l’acuta disamina della fissazione identitaria a cui Maurizio Bettini dedica un libro sapientemente militante (Hai sbagliato foresta, il Mulino «Intersezioni», pp. 168, e 14,00). L’autore la preleva da un verso di Caproni: «Non chieder più. / Nulla per te qui resta. / Non sei della tribù. / Hai sbagliato foresta». La foresta nella lirica di Caproni è quella «di chi appartiene alla tribù» e si contrappone alle altre foreste dove alloggiano le molte altre tribù del pianeta. Gli attrezzi teorici con cui Bettini analizza la patologia identitaria provengono da un lato da quello che chiamerei il suo istinto filologico, dall’altro dal suo sguardo antropologico rivolto agli oggetti simbolici, affinato in studi fondamentali dedicati ai miti greci.
Filologia e antropologia – e qui sta l’originalità del libro – consentono a Bettini di smascherare le bugie identitarie che spesso reclamano nobili discendenze da antiche tradizioni nazionali. Il fascismo, si sa, è stato nel Novecento l’antesignano di queste acrobazie genealogiche, alla luce delle quali per i neofascisti di oggi una parola come ‘identità’ avrebbe la sua origine nell’identitas latina, un termine che, ci assicura Bettini, non esisteva né nell’età di Cicerone né in quella di Seneca. La famiglia semantica della parola identità ha semmai la sua origine in ambito teologico: «identità è una nozione che (in qualche modo) nasce sacra, ha a che fare con soggetti divini, non umani». L’identitas in ambito cristiano riguarda la natura divina che è se stessa nella Trinità, il Dio uno e trino.
Se da questa ricognizione semantica sull’origine della parola ci si sposta sul suo utilizzo politico, si scopre come sia proprio la sfera del sacro quella a cui l’estremismo di destra ricorre per legittimare le sue battaglie in difesa dell’identità culturale. Sacralità e identità circoscrivono il perimetro di ciò che non può essere contaminato e ogni minaccia di violazione di questo sacro recinto va combattuta in nome di Dio.
D’altra parte, la difesa dell’identico ha proprio nella purezza – ci spiega Bettini – uno dei suoi marcatori simbolicamente più rilevanti: la difesa sacrale della propria foresta allontana la minaccia dell’impurità di cui è portatore l’alieno in quanto alieno. Ed è proprio la purezza l’indicatore più evidente di una paura del diverso che ha nella costruzione del nemico e nella sua distruzione la sua più compiuta espressione. Con sorvegliata ironia Bettini esibisce la palese inconsistenza delle pseudo-argomentazioni identitarie che affiorano sempre più numerose nei discorsi della politica e nelle performance clownesche che li accompagnano.
La patografia del furore identitario che vediamo disegnarsi progressivamente nel libro evidenzia con implacabile precisione i meccanismi che fanno funzionare la macchina dell’esclusione e ci mostra altresì come il rifiuto della diversità e la devozione integralista di fatto inibiscano ogni crescita culturale. La cultura, infatti, vive di confronti e di assimilazioni e ciò vale tanto per la letteratura e le arti in genere quanto per i saperi pratici, ad esempio per la gastronomia.
Proprio la cucina evidenzia nel modo più netto le contraddizioni dei difensori a oltranza della tradizione: il pomodoro, che diventa il condimento basilare della pasta solo a partire dal XVIII secolo, era arrivato in Italia dall’America Latina. Analoghe contaminazioni si possono osservare nella storia di molti cibi ma anche in quella di usanze, mode, espressioni artistiche popolari. Non c’è quindi alcun motivo di scandalo, osserva l’autore, se il comitato bolognese per le celebrazioni della festa di san Petronio ha deciso qualche tempo fa che il ripieno dei tortellini da offrire ai convenuti fosse a base di pollo per consentire anche ai musulmani di partecipare alla festa. E non ci sarebbe da meravigliarsi nemmeno se questo fosse il preludio a una mutazione gastronomica che rimpiazzasse il tortellino di maiale con quello di pollo.
Ma come si può smontare l’ideologia identitaria e invertire la tendenza politica e di costume che si è affermata con adesioni sempre più elevate in questi ultimi anni? Bettini suggerisce una strada che se diventasse un contenuto prioritario della formazione scolastica sarebbe l’antidoto più efficace al fanatismo identitario: quella di un sano relativismo che consenta di pensare la differenza non come un limite invalicabile ma come un’opportunità di arricchimento. Detto altrimenti: il ‘politeismo’ in luogo del ‘monoteismo’ poiché «l’identitarismo, per costituzione, non può che essere contro il relativismo culturale, ideologico, politico, proprio come il monoteismo è contro la pluralità del politeismo». Da fine conoscitore della storia di Roma antica, Bettini ricorda che una delle ragioni che hanno consentito a quel mondo di crescere e di rafforzarsi è stata l’accettazione dei molti culti e delle molte tradizioni locali che i diversi popoli assoggettati politicamente hanno potuto praticare per secoli.
Ma la menzogna identitaria si palesa soprattutto nello scambiare per natura ciò che è frutto di cultura, o per essere più precisi di retorica. «In effetti, parlare di purezza dell’identità significa semplicemente dar vita a una metafora, allo stesso modo di quando si dice che l’identità corrisponde alle “radici” della nostra tradizione. Così come l’identità non può avere radici, perché non è una pianta e non appartiene all’ordine vegetale, e tanto meno può averle la tradizione, allo stesso modo non è possibile determinare la “purezza” dell’identità».
Un meccanismo ben noto che ha agito spesso nella storia delle persecuzioni fino agli stermini del Novecento. Un meccanismo che viene anche oggi usato dagli «imprenditori politici del panico identitario», che si avvalgono di potenti narrazioni diffuse nella mediosfera, in particolare nei social media, e che fornisce a molti sprovveduti una compensazione simbolica alla frustrazione e all’emarginazione economica. E qui sta secondo l’autore la risposta alla domanda: cos’ha determinato questa deriva identitaria alimentata da un complottismo dilagante?
Mai come oggi le narrazioni hanno colonizzato il nostro immaginario e «questo significa che, ormai, percepiamo la realtà attraverso una lente potentemente narrativa. L’orizzonte della nostra mente è perennemente offuscato da una densa nuvola di “storytelling”». E tra queste narrazioni si sono nettamente imposte quelle che seguono il pattern della crime story fondata sulla ricerca del colpevole nascosto tra di noi con la complicità di qualche traditore e pronto a colpirci in qualsiasi momento.
Questa spiegazione convince, le prove sono evidenti, nondimeno ci si chiede perché il bisogno di finzione sia uscito dalla sfera dell’intrattenimento per diventare verbo politico con un seguito che in Italia e in molte democrazie europee raggiunge e supera la metà degli elettori.
Il breve ma denso libro di Maurizio Bettini, come si conviene a una scrittura militante, cita fatti, episodi, figure della politica e della società di questi anni che si sono resi protagonisti della diffusione del verbo identitario. Ne ricostruisce la genesi, avanza ipotesi che fanno riflettere. Forse a qualcuno dei personaggi citati non avrei accordato con la stessa generosità dell’autore il privilegio della pubblicità, ma è certo che una miscela così riuscita di riflessione teorica e denuncia politica si vede di rado nelle patrie scritture di questi anni e questo va ascritto al merito dell’autore e del suo libro.