«Il modello americano non lo vogliamo: ci teniamo al nostro contratto». I lavoratori del turismo e della ristorazione – a partire dai più noti, quelli di McDonald’s e Autogrill – ieri hanno scioperato per l’intero turno, per dire no al ricatto posto dalla Fipe, l’associazione di Confcommercio che vuole rivoluzionare i rapporti in Italia. Imponendo dei regolamenti aziendali – unilaterali – al posto del contratto nazionale, già disdettato.

C’è già il modello Marchionne a fare da apripista, è vero, ma la Fiat ha perlomeno messo in piedi un contratto separato, che una parte del sindacato ha comunque firmato. E i regolamenti, li firmerebbe qualcuno? «Noi sicuramente no – dice Christian Sesena, segretario nazionale Filcams Cgil – e penso neanche gli altri. Se si volesse mettere davvero in campo questo sistema, avremmo sicuramente modo di reagire, con le vertenze sindacali e in campo giuridico. Tra l’altro, se è vero che le grandi catene desiderano questa trasformazione, credo che ai piccoli non farebbe comodo una micro-vertenzialità continua e diffusa. Pesano anche loro dentro la Fipe».

L’associazione di Confcommercio ha già disdettato il contratto a partire dal primo maggio, ma ultimamente – dopo che era stato annunciato lo sciopero – era giunta a più miti consigli, rinviando la disapplicazione al prossimo 1 gennaio: senza però rinunciare alla disdetta. Nel contempo, si è detta disponibile ad avviare un confronto. «Noi ci siederemo al tavolo, ovviamente – dice Sesena – Ma sappiano che non firmiamo accordi a perdere. Ci teniamo al contratto nazionale».

La Filcams si appella anche al governo: «Ha mediato per la vertenza Electrolux – dice il segretario Filcams – Perché adesso Renzi non pensa anche a questi lavoratori? Tra alberghi, fast food e tour operator si tratta di un milione di persone: spesso giovani e precari, mamme con situazioni difficili. Si parla pochissimo di noi, ma finalmente con lo sciopero abbiamo bucato il silenzio mediatico».

La «fortuna» (se così si può dire) di questo sciopero del turismo, è stato il fatto che la mobilitazione non era limitata solo all’Italia: era anzi stata indetta dagli Usa, e ha coinvolto (con diverse iniziative il 15 maggio) ben 33 paesi. In particolare, però, la protesta mondiale riguardava i fast food: #FastFoodGlobal lo slogan sui social.

Presidi un po’ ovunque, soprattutto nelle grandi città, ma si sono mobilitati anche marchi meno noti al grande pubblico. Ad esempio Sarni, una catena di ristorazione autostradale che ha rilevato i punti della Fini. Un lavoratore iscritto alla Filcams Cgil – manteniamo l’anonimato per tutelarlo – ci spiega che come in McDonald’s e Autogrill spesso il lavoro è precario ed esposto a rischi.

«Abbiamo part time, spesso di 20 o 24 ore, con cui fai massimo 750 euro al mese – spiega il lavoratore Sarni – Inoltre l’azienda ha disdettato il contratto della Fipe, e ne applica uno peggiore, quello siglato dalla Cisal nei locali meridionali. Lo stesso è avvenuto con l’integrativo».

Si peggiora di continuo, quindi, su orari, maggiorazioni, relazioni sindacali. Aumentano gli stagionali e le assunzioni a tempo indeterminato sono una chimera. Senza contare i rischi per la sicurezza: «Un capitolo che non è certo la priorità per la nostra azienda – dice il lavoratore – E come in Autogrill c’è il problema di personale insufficiente, e delle notti che spesso deve fare una lavoratrice da sola».