Al di là della retorica della «particella di Dio» e della «ricreazione del Big Bang in laboratorio», troppo spesso utilizzata a livello divulgativo e tale da confondere le idee al profano più che chiarirle, la scoperta dei bosoni di Higgs costituisce in effetti una tappa di grande importanza per la storia della fisica e della scienza in generale, perché conferma la correttezza e la fruttuosità della direzione che la ricerca in fisica delle particelle ha preso negli ultimi decenni, aprendo allo stesso tempo la strada a sviluppi ulteriori la cui portata si può solo intravedere. L’uscita del bel libro di Jim Baggott Il bosone di Higgs per Adelphi (pp. 259, euro 23) rientra quindi in una dinamica comprensibile: tanto più fondamentale la disciplina a cui si fa riferimento, e tanto più importanti i risultati da essa ottenuti, tanto maggiore l’interesse suscitato, tra gli esperti come nell’opinione pubblica.
Qual è la natura delle forze che tengono insieme i «quark», i costituenti ultimi della materia, e la differenza fra queste e le altre forze – per esempio, l’elettromagnetismo – con cui si pensa che queste fossero unificate all’inizio dell’evoluzione dell’universo? Che cosa ha portato alla rottura di tale unità? Che cosa determina il fatto che gli oggetti con cui interagiamo quotidianamente hanno massa, corporeità, mentre i fotoni, cioè la luce, no? Le particelle la cui esistenza è stata congetturata da Peter Higgs e altri fisici (Brout, Englert, Guralnik, Hagen e Kibble) nel 1964 giocano un ruolo fondamentale nella formulazione di risposte a tutte queste domande. In particolare, i quark, ma non i fotoni, interagiscono con il campo di Higgs, un’entità estesa nello spazio di cui il bosone è, per così dire, una «condensazione locale» – un po’ come una piccolissima gobba in un tappeto non perfettamente steso. Tale interazione «imbriglia» i quark, essi acquisiscono cioè una resistenza all’accelerazione che altrimenti non avrebbero.
Ciò che chiamiamo «massa» è, fondamentalmente, il risultato di un meccanismo analogo a quello che determina la differenza fra una pallina che scivola su un piano cosparso di colla e una che si muove su un marmo completamente levigato – qualcosa di tanto semplice quanto difficile da ipotizzare e formulare con la necessaria precisione matematica nel caso della fisica dei (presunti) «mattoni fondamentali» dell’universo. Da tutto ciò, la necessità di includere i bosoni di Higgs nell’inventario di tali mattoni fondamentali, rivolgendosi poi alla natura stessa per sapere se tale inventario è stato correttamente definito.
Jim Baggott introduce e illustra questi temi molto bene, senza eccedere nei tecnicismi (dei quali, d’altro canto, non si può fare totalmente a meno in un testo di questo tipo). E, seguendo un ormai sperimentato stile di ricostruzione insieme storica, sociologica e teorica, accompagna il lettore attraverso quasi un secolo di evoluzioni teoriche e tecniche. Dall’intuizione per certi versi originaria, per cui la simmetria è una caratteristica fondamentale dell’universo e delle sue leggi, da parte della matematica tedesca Amalie Emmy Noether intorno al 1915, fino alla conferenza di annuncio della scoperta del bosone di Higgs a Ginevra il 4 luglio 2012, passando per le idee ingegnose, ma anche le frustrazioni e gli errori, di grandi fisici come Pauli, Yang, Mills, Glashow, Gell-Mann, Weinberg, Salam, T’Hooft e altri. La parte finale del libro, dedicata alla «corsa alla scoperta» che ha caratterizzato i primi 12 anni del terzo millennio, è particolarmente ben riuscita: Baggott riesce a tradurre in un avvincente testo scritto l’insieme di aspettative e timori, incertezza e fiducia che ha caratterizzato l’opera di tutti coloro che hanno partecipato, direttamente o indirettamente, da figure di riferimento o semplici comparse, alla scoperta del bosone di Higgs. E vengono posti nella giusta luce anche elementi, solo apparentemente marginali, come il desiderio di sopravanzare altri gruppi di fisici, e il calcolo economico-politico.
In questa chiave è interessante, in particolare, leggere le parti del testo in cui Baggott ricostruisce le dinamiche della ricerca di fondi e la relazione fra politica e scienza. La storia che conduce alla scoperta del bosone di Higgs è infatti anche una storia di valutazioni di opportunità.
Talvolta positive, e talvolta contrarie, come nel caso del governo americano agli inizi del millennio. In altri casi, indirizzate a favore della comunità dei fisici solo grazie all’ingegnosità e capacità comunicativa del singolo – come quando, nel 1993, l’immagine di Margareth Thatcher che attira pettegoli a un ricevimento fu utilizzata con successo per spiegare ad uno scettico ministro inglese della scienza la funzione dei bosoni di Higgs rispetto alle altre particelle.
Vorrei però ritornare ora su un punto che ho già sottolineato nel mio precedente intervento sul tema. Come il titolo originale del libro di Baggott mette in evidenza – mentre quello della traduzione in italiano incautamente nasconde – si tratta prima di una invenzione che di una scoperta. Ancora meglio, il bosone di Higgs è innanzitutto una creazione concettuale, un’ipotesi – nel gergo filosofico, una «entità inosservabile» o «entità teorica». Avendo i fisici delle particelle a che fare con ordini di grandezza inaccessibili ai nostri sensi, ogni loro proclama riguardante questo tipo di entità rimane comunque rivedibile.
In altre parole, gli esperti sono sì concordi sul fatto che la possibilità che i dati ottenuti al Cern siano frutti del caso è minima – ben al di sotto della soglia statistica richiesta per parlare di scoperta. Ma questo non vuole automaticamente dire che l’esistenza della particella di cui ci stiamo occupando sia confermata in modo definitivo, come può esserlo (perlomeno al di là di radicali dubbi scettici) l’esistenza di questa pagina di giornale di fronte a te ora.
Piuttosto, come direbbe Popper, la teoria sulla base della quale l’ipotesi è stata formulata è stata fortemente «corroborata», ma rimane in linea di principio sempre passibile di falsificazione e, quindi, di sostituzione con un’altra teoria. Magari una teoria completamente diversa – magari una in cui il bosone di Higgs non appare più… Invenzione e poi scoperta, dunque, ma in una dinamica per cui l’elemento ipotetico non è mai eliminato totalmente. (Contro il falsificazionismo radicale di Popper, d’altro canto, ha ragione Steven Weinberg nella premessa del libro, quando sostiene che «la teoria … non sarebbe stata seriamente inficiata nemmeno se la particella di Higgs non fosse stata trovata»).
Questo, beninteso, non per dire che non ci sia stata alcuna scoperta, o che la fisica non migliori di fatto la nostra conoscenza delle cose. Si tratta piuttosto di capire che tipo di passo in avanti è stato fatto. Il punto è che il testo di Baggott, come la maggior parte della divulgazione scientifica odierna, preferisce sottolineare la – innegabile – grandiosità degli schemi concettuali e delle capacità pratiche che stanno alla base delle scoperte scientifiche, alimentando così, almeno indirettamente, una visione settecentesca di progresso come accumulazione lineare di verità. Tale concezione è anacronistica: oggi è piuttosto opportuno richiamare, a livello di riflessione filosofica, l’elemento di ineliminabile temporaneità insito nella scienza e nella sua crescita. Non a caso, la storia è costellata, come abbiamo già avuto modo di dire, di teorie scientifiche di successo ma che teorie successive hanno poi decretato false. Peraltro, forse nessuna teoria fisica del futuro farà a meno del bosone di Higgs. Ma, se anche al Cern fosse stato scoperto un fatto oggettivo sulla natura dell’universo, come potremmo esserne certi? La «Verità» rimane per sempre velata, ideale regolativo più che obiettivo raggiunto.
In definitiva, episodi come la scoperta del bosone di Higgs, pur essendo senza dubbio progressivi, devono essere valutati in tutti i loro aspetti – inclusi quelli che hanno a che fare con la congettura, l’incertezza e la possibilità di errore. Per fare ciò, non si può che abbandonare ogni dogmatismo e aspettare ulteriori sviluppi della ricerca, sempre pronti a rivedere le nostre convinzioni, i nostri schemi concettuali e le nostre teorie se necessario. Così inteso, tra l’altro – per rifarci ancora una volta a Popper – il vero spirito scientifico, in quanto critico, aperto e umilmente consapevole della fallibilità dell’essere umano, dovrebbe senza dubbio essere esteso alla sfera etica e sociale.