Non basteranno al popolo mapuche, o almeno alla sua parte più combattiva, le parole pronunciate da papa Francesco durante la messa celebrata ieri all’aeroporto di Maquehue, in un territorio ancestrale indigeno di proprietà della forza aerea cilena, utilizzato durante la dittatura di Pinochet come un centro di tortura e di detenzione.

Un luogo «in cui si sono registrate gravi violazioni dei diritti umani», ha ricordato il papa, rivolgendo il pensiero «a tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e a quanti ogni giorno portano sulle loro spalle il peso di tante giustizie», ma senza far cenno alle rivendicazioni dei mapuche su quel territorio, né chiedendo perdono per il ruolo svolto dalla Chiesa nella storia di violenza contro i popoli indigeni.

Neppure avrà molto senso, per un popolo a cui lo Stato cileno ha sottratto la terra e negato ogni diritto, l’appello di Francesco a superare scontri e divisioni, il suo invito all’unità come «diversità riconciliata» basata su «ascolto e riconoscimento», da non confondere con l’«uniformità» o con un’«integrazione forzata».

Né sarà apparsa convincente, a chi è da sempre vittima della repressione e della legge del più forte, la condanna della violenza espressa dal papa, il quale se, denunciando la sottoscrizione di accordi pieni di belle parole ma destinati a rimanere sulla carta, ha voluto mandare un preciso messaggio al governo, ha però ricordato ai mapuche, senza nominarli, che «non si può chiedere il riconoscimento distruggendo l’altro» e che la violenza «finisce per rendere falsa la causa più giusta», invitando, al contrario, a cercare «il cammino della non violenza attiva, come uno stile di politica per la pace».

Che diverse comunità mapuche chiedessero al papa ben altro che queste parole era apparso chiaro ancora una volta con l’occupazione, alla vigilia della messa di Francesco (seguita da un pranzo con 11 rappresentanti indigeni), di un terreno ancestrale di 70 ettari nel comune di Cañete, oggi di proprietà dell’arcidiocesi di Concepción. «Con questa occupazione – hanno scritto diverse comunità originarie – invitiamo la Chiesa cattolica e la sua massima autorità a restituire senza condizioni le terre usurpate al popolo mapuche». E sottolineando come la Chiesa sia stata protagonista o complice della politica di genocidio portata avanti dall’Impero spagnolo prima e dallo Stato cileno poi, hanno esortato il papa, «prima di pronunciare parole di cortesia nei confronti del nostro popolo e di parlare di pace», a «dare l’esempio su come risolvere politicamente il conflitto territoriale esistente nel Wallmapu, restituendo il territorio usurpato».

In questo quadro, sarebbe senz’altro importante un gesto del papa a favore di Francisca Linconao, l’autorità tradizionale mapuche (machi) nuovamente sotto processo insieme ad altri 10 comuneros (dopo l’annullamento della sentenza di assoluzione dell’agosto scorso), per il caso dell’incendio alla residenza dell’imprenditore Werner Luchsinger, morto nel rogo nel 2013 insieme alla moglie Vivienne. Un caso di persecuzione politica riconducibile a quella Legge antiterrorista varata da Pinochet e usata ancora oggi per colpire dirigenti e autorità ancestrali in lotta per la restituzione delle terre usurpate. Una richiesta, quella di intercedere a suo favore presso il governo, espressa dalla stessa machi Linconao in una lettera accorata che, da autorità spirituale ad autorità spirituale, ha tentato di consegnare al papa mentre le passava vicino con la sua papamobile. Ci ha pensato la polizia, però, a impedire ogni contatto.

«Vorrei spiegargli tutto ciò che sta avvenendo qui», aveva detto la machi in un’intervista di qualche giorno prima, augurandosi un suo intervento a favore del popolo mapuche. «Altrimenti cosa è venuto a fare?».