C’era grande attesa per il nuovo film di Raoul Peck. Domenica sera la gigantesca sala del Friederich Palast, era piena per la prima de Le jeune Karl Marx. Che cosa hanno visto tutti questi aspiranti marxisti? Un film di Raoul Peck, vale a dire un’opera in cui si mescolano insieme e in parti il più possibile uguali degli elementi biografici, intimi, politici, storici. Ora, nel caso dell’oggetto Marx, ognuno di questi aspetti poteva dare luogo ad un’interpretazione, nella misura in cui l’ordine di presentazione è sempre una maniera di esporre un rapporto di causa a effetto: la vita sull’opera, la politica sulla vita, il carattere sulla politica, la teoria su tutto il resto… È chiaro che in un film, e in particolare in un film in costume, è la parte romanzata a prendere il sopravvento. Fin dalla prima sequenza, però Raoul Peck e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer hanno cercato di riequilibrare il tutto mettendo al centro il lavoro teorico, cosa notoriamente non facile da filmare.

Il film si apre su un gruppo di sottoproletari intento a raccogliere legna, falciati da una carica di poliziotti a cavallo. Off, risuona il ragionamento di Marx contenuto in un celebre articolo della Gazzetta Renana scritto contro la nuova legge: «si stacca dalla proprietà ciò che è già staccato da essa… voi infatti possedete l’albero, ma l’albero non possiede più quei rami». È qui, nel 1842, che ha inizio Il giovane Karl Marx. E tutto è in un certo senso già accaduto, in particolare quanto concerne la sua vita privata. Marx (lo interpreta l’attore tedesco August Diehl) è già sposato con Jenny von Westphalen (Vicky Krieps), l’aristocratica che ha scelto la ribellione alla sua classe, sposando il figlio di un ebreo convertito. E la loro storia non evolve di un millimetro. Così come quella di Engels (Stefan Konarske), e in questo caso la scelta di Peck è ancora più evidente. L’incontro, come è noto, avviene a Parigi, quando i due sono già convinti ammiratori l’uno dell’altro: Engels del genio critico di Marx, quest’ultimo della conoscenza della situazione della classe operaia dell’altro. Devono solo confessarselo. Certo, Marx passa attraverso vari naufragi economici e politici, sempre in ristrettezze economiche, sempre alla ricerca di qualche soldo per sfamare la famiglia, braccato dalla polizia e costretto all’esilio.

E proprio il racconto della miseria economica in cui versa l’autore del Capitale, permette al regista di togliere al lato dickensiano il ruolo di traino del film. Ma Peck ha voluto evitare di fare un film pedante. Ha cercato di concentrare il pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l’idea del conflitto.
Fin dalla prima scena, troviamo il giovane Marx intento a combattere i suoi compagni di strada. Alcuni dei quali erano, come Proudhon (Olivier Gourmet con un’inedita barbetta), delle figure molto amate nel mondo operaio. La ferocia con la quale Marx si scagliò contro questi suoi concorrenti è nota perché pubblica. Quello che Marx porta al movimento operaio è una solida teoria scientifica, nella quale non c’è posto per il moralismo universalista dei socialisti del suo tempo. Ma quest’aspetto – secondo Peck, fa tutt’uno con il personaggio. E in questo prende senso l’amicizia con Engels, e la loro complementarietà di carattere, la quale diventa poi anche una simbiosi politica. Il film si chiude con due scene che si guardano come allo specchio, quella in cui Engels impone la linea marxista al congresso della lega dei giusti fondando la lega dei comunisti, con Marx a seguire nell’ombra. E quella in cui viene redatto il manifesto, in cui a tavola sono in quattro: con Marx al centro e gli altri tre nell’ombra: Engels, Jenny e Mary, l’operaia irlandese con la quale Engels visse fino alla morte di lei.

In questo sforzo  di piegare le regole del biopic ad un esigenza pratico-teorica, il film è ammirevole, così come il tentativo di restituire tutti i lati possibili della personalità di Marx: il genio, l’uomo, il suo pensiero, i suoi limiti – e il suo rapporto speciale con Jenny e con Engels. Ma il risultato è un film che decide di scegliere il meno possibile: evita di farsi schiacciare da un materiale potenzialmente infinito, al prezzo di addomesticarne la potenza. In fondo Il giovane Karl Marx si permette una sola audacia, un po’ tardiva e non particolarmente riuscita: un diaporama finale su musica di Bob Dylan, nel quale le parole del Manifesto accendono la miccia del ventesimo secolo e fino a noi.