Per alcuni risulteranno osservazioni ovvie, ma è sempre bene ricordare, affrontando l’argomento, che i musei sono luoghi emblematici per conservare e interpretare il passato, non sono solo scatole da riempire; il loro allestimento è la rappresentazione fisica di una lettura critica del passato, e il passato è, come il futuro, per tanta parte imprevedibile e ricco di aspetti inesplorati. Ogni museo rappresenta perciò una specifica testimonianza di un modo di rapportarsi al passato. Anche il presente, e le novità portate dalla ricerca storica, bussano costantemente alle sue porte: i riallestimenti e gli arricchimenti, con una certa dose di flessibilità, sono necessari alla vita di questi spazi, ma gli adeguamenti alle provocazioni del presente sono tanto più complicati quando la sede stessa del museo è oggetto di tutela. In quanti edifici storici, spesso identificativi di una specificità civica, sono conservate le testimonianze culturali di una città o di un borgo?
È così anche a Perugia, dove la formazione dell’attuale Galleria Nazionale ha seguito un processo piuttosto comune per il nostro Paese: inizialmente serbatoio di materiali utili agli studenti dell’Accademia del Disegno, la collezione è integrata dai dipinti giunti per tramite delle demanializzazioni dei beni delle chiese e delle corporazioni cittadine. Con l’Unità e ulteriori aggiunte, nel 1863 la pinacoteca apre al pubblico ed è dedicata al più noto artista umbro, Pietro Vannucci detto il Perugino. Nel 1879 è trasferita al terzo piano del Palazzo dei Priori, al cuore della città e accanto alle sedi del potere civico, dov’è ancora; nel 1918 diventa Galleria Nazionale. Tra allora e oggi quegli spazi sono cambiati molte volte, adeguandosi agli ingressi di nuove opere, ai cambiamenti nella gestione, al mutare del gusto, al dibattito intorno all’istituzione museo, tra catalogazioni, novità, nuove disposizioni dei pezzi, mostre, ricorrenze, e i nomi di chi vi ha lavorato che scorrono da un catalogo all’altro: Francesco Moretti, Umberto Gnoli, Achille Bertini Calosso, Francesco Santi…
L’ultima trasformazione della Galleria Nazionale di Perugia, diretta da Marco Pierini, è recentissima: un anno di lavoro concluso con la riapertura del 1° di luglio dove il museo è stato ripensato con un allestimento firmato da Daria Ripa di Meana e Bruno Salvatici, nuovi apparati, l’uso (pacato, didattico) di dispositivi multimediali che si sposano al disegno dei supporti, alle scelte di design e alla grafica pulitissima di didascalie, manifesti, pannelli.
Lo sfoltimento dell’esposto ha reso fluido un percorso dove si squaderna la storia della pittura umbra, con incursioni importanti nell’oreficeria e nella scultura: per esempio si vedono perfettamente, illuminati da luce naturale, i bronzi con i Grifi e leoni del maestro «Rubeus» e le Portatrici d’acqua, 1278, già parte del sistema idraulico della Fontana Maggiore. Le loro seduzioni ellenistiche sembrano provenire da un altro mondo rispetto alle potenti semplificazioni formali dei frammenti di pietra, pressappoco contemporanei, della Fontana Minore di Arnolfo di Cambio, esposti a pochi passi. O, ancora, il confronto tra il Reliquiario di Sant’Anna della cerchia di Cataluccio da Todi, 1390-1410, e il polittico di Santa Giuliana di Domenico di Bartolo Ghezzi, 1438, fotografa un momento tra nostalgie gotiche e novità più sperimentali; e si potrebbe continuare a lungo.
Si può passeggiare nelle sale come in una via di Perugia: l’identità dell’edificio che ospita la raccolta non è mai negata perché gli spazi del palazzo sono fruibili quanto le opere, e il rapporto con la città è come evidenziato dalle finestre schermate da tende leggerissime, trasparenti, che permettono di vedere l’esterno e di filtrare i raggi del sole; e nelle strombature ci si siede: c’è chi scrive, chi riposa, chi guarda la città, con i suoi tempi e le sue sovrapposizioni di storie e di pietre; si osservano gli accostamenti degli oggetti in sala, assecondando raggi visuali insoliti. Per esempio, basta spostarsi poco per apprezzare la carpenteria della Croce del Maestro di San Francesco, 1272. Quasi cinque metri di altezza e un’inclinazione che permette di vedere il retro, con un’attenzione per questi aspetti materici che rimanda alla bellissima mostra su Taddeo di Bartolo del 2020 – quanti incastri di tavole e legni che sembrano mutuati dall’ingegneria navale, nelle colossali macchine d’altare del pittore senese –, ma anche alla Croce vista da dietro che sovrasta il Presepe di Greccio di Assisi.
Per ridere, nel museo le chiamano familiarmente «le basi con le palle». Ma le linee nette dei nuovi supporti per le opere nascondono un sistema complesso che permette al meglio due cose inderogabili: conservazione e tutela. Perlopiù addossati alla parete, hanno un sistema a pantografo che consente di spostare il blocco in avanti per verifiche, manutenzioni e restauri; le «palle» sono invece le sfere, in qualche caso lasciate a vista, che minimizzano le sollecitazioni in caso di terremoto.
Sui divanetti si è sufficientemente comodi per poter ragionare: la cura e la coerenza che c’è in ogni dettaglio, persino nella brochure con le Informazioni generali che si può prendere all’ingresso, è dovuta a diversi fattori. A un’idea, a un’ottima direzione, a un gusto tarato sul contemporaneo, all’impegno di una squadra rodata… attenzioni che si vedono in molti musei svizzeri e tedeschi, in alcuni americani, e soprattutto in tanti musei di arte contemporanea. C’entra certamente l’agilità di gestione dovuta alla riforma più recente del sistema museale nazionale, ma mi chiedo se alcune scelte non dipendano anche dall’essere cresciuti con certe abitudini visive, educati al circo delle mostre e agli allestimenti temporanei tra arte, moda, eventi e design, studiati di tutto punto con l’esigenza di adattarsi a spazi preesistenti ma senza prevalere sulle opere e sul racconto, con un’immagine coordinata e una comunicazione chiara per un pubblico ampio.
Del resto lungo il percorso allestitivo entra anche il contemporaneo, ma in punta di piedi, al servizio di un’idea generale negli interventi di Vittorio Corsini nella Cappella dei priori, di Roberto Paci Dalò più avanti, e nella piccola raccolta di opere della sala finale. Percorrendo le sale si processa perciò materiale immobile, per di più proveniente dai secoli passati, approntato perché possa ritrasmettere dei significati; le possibilità di riflessione e reazione sono amplificate per avvicinare la platea allargata – e non sempre formata e informata – del pubblico attuale a una comprensione del processo creativo e dei contesti nei quali esso si inseriva. Insomma, canali comunicativi aggiornati con un occhio particolare ai temi del presente: c’è da sperare che diventi presto un modello.
Tutto questo si sposa anche con la nuova definizione del museo uscita dall’Assemblea Generale Straordinaria dell’International Council of Museums di Praga, diffusa proprio in questi giorni: «il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».