Sembrerà paradossale, ma se volete sapere come si fa il cinema – o meglio come si faceva prima dell’avvento delle tecnologie digitali – non scomodate i registi o gli sceneggiatori, ma chiedetelo ai direttori della fotografia. Sul set del film i cinematographer sanno bene quali sono i problemi concreti della realizzazione e riescono – quando riescono – a mediare le ambizioni del progetto con i diktat della produzione. Nel libro, che raccoglie quindici conversazioni con i grandi direttori della fotografia soprattutto americani entrati ormai nel mito, nessuno lo dice meglio di Bill Butler.

Sul set di “Lo squalo” (1975) si accorge subito che nelle riprese in mare c’erano dei problemi enormi di cui la casa di produzione non aveva la minima idea: “Come fai a illuminare una persona in pieno sole? Come fai a mettere bene in luce le facce se il sole picchia dappertutto e sei costretto a sottoesporre la pellicola? Che lampada bisogna usare, che sia abbastanza forte per illuminare gli attori da un’altra imbarcazione?”. Quando fa le sue richieste la produzione rimane sconvolta, e il regista pensa che sia impazzito nel momento in cui gli dice che avrebbe usato la macchina a mano, la più adatta per ottenere l’effetto voluto. Steven Spielberg – che non aveva mai filmato in acqua – voleva assolutamente usare il treppiede. Si convince solo dopo un paio di riprese di prova: “Ho anche insistito per girare tutto il film più vicino possibile al pelo dell’acqua, per giocare sull’effetto psicologico che avrebbe avuto sul pubblico sapere che là sotto c’era uno squalo in agguato”. Il lavoro di Michael Chapman per “Taxi Driver” (1976) di Martin Scorsese è cominciato in una sala di proiezione, vedendo tantissimi film, ambientati a New York ma anche no, acquisendo altrettanti punti di riferimento, ma non certo uno specifico stile visivo, anche perché ogni film sembra a un certo punto andare al di là delle idee programmatiche di partenza: “Si dice sempre vorrei che venisse così o così, ma dopo un po’ ogni film inizia a vivere di vita propria. Ti impone le sue regole e lo stile viene fuori di conseguenza”.

Se il film sembra andare per conto suo, il direttore della fotografia non può mai rinunciare alla coerenza del punto di vista. Nessuno lo dice con altrettanta energia di Gordon Willis, che tanti colleghi considerano un maestro da cui hanno imparato moltissimo: “La coerenza è un aspetto fondamentale. E non è facile perché devi sempre ricordare a te stesso e agli altri di mantenere lo stesso punto di vista durante il film, se vuoi che sembri un tutt’uno. C’è uno stile da mantenere, e la maggior parte delle volte è facile capire quando stai uscendo dal seminato. I registi qualche volta non lo capiscono perché spesso sono impegnati a gestire problemi ben più grandi, ovvero star dietro agli attori e riuscire a raccontare una storia”. Non sempre i tradizionalisti hanno accettato le scelte provocatorie di un direttore della fotografia fedele alla rigorosa coerenza del punto di vista che sul set del “Padrino” (1972) e soprattutto del “Padrino-Parte II” (1974), entrambi di Francis Ford Coppola, ha usato una gamma di colori quasi da film storico e le luci morbide proiettate dall’alto, infischiandosene se non si vedevano gli occhi: “La tradizione hollywoodiana è fatta di schemi mentali: quando vengono analizzati i giornalieri, si applicano sempre gli stessi schemi, e la verità è che chi li analizza non vede davvero ciò che sta guardando. Ho avuto un sacco di critiche perché gli occhi non erano visibili, ma la mia risposta è stata che in alcune scene era addirittura meglio che non si vedessero, era più importante cosa stava passando per la testa dei personaggi”(Dennis Schaeffer, Larry Salvato, I maestri della luce, Minumum Fax pp. 595, euro 22,00).