Circa un decennio fa Geoffrey Hartman, il noto critico letterario tedesco fuggito negli Stati Uniti, scrisse che l’interrogativo per almeno tre generazioni sarebbe stato come tramandare il ricordo dell’Olocausto. Accostava la «cultura della memoria» a un’«alta marea» imprevedibile sulla lunga distanza e su ciò che d’impagabile avrebbe portato con sé. Citava Habermas e la sua idea che la storia del genocidio nazifascista sugli ebrei aveva assunto una forza più intensa ora che nell’immediato dopoguerra

TUTTAVIA, È SUL CONCETTO di «testimone intellettuale» – mutuato da quello di «secondario» di Terrence des Pres e Lawrence Langer – che Hartman si concentrò in modo particolare. A differenza della testimonianza diretta dei sopravvissuti lo «sforzo consumante» dei testimoni che sarebbero venuti dopo esigeva «un medium più permanente della mente individuale» per contrastare «la fantasmatizzazione o dissociazione endemica del trauma». Concludeva affermando che l’arte e la memoria comune, interagendo tra loro, potevano assolvere questo gravoso compito. L’architettura in particolare può svolgere in questa direzione un ruolo fondamentale come dimostra Jacques Gubler nel suo ultimo saggio Architettura dell’indelebile (Christian Marinotti Edizioni, pp. 95, euro 12).
Attraverso il racconto del Memoriale della Shoah di Milano degli architetti Annalisa de Curtis e Guido Morpurgo e quello a Drancy dello studio Diener & Diener Architekten, lo storico svizzero s’interroga innanzitutto «come scrivere la storia della Shoah», quale corrispondenza di significato hanno le parole Olocausto o Genocidio e quale attenzione avere per usarle affinché non l’«indicibile», ma «una memoria completa e indelebile» sia, come scrisse Primo Levi, la prima finalità da porsi. I luoghi della testimonianza legati agli eventi della deportazione e dello sterminio alla pari delle parole includono dei rischi: non devono né traumatizzare né suscitare curiosità o voyeurismo.

SERGEI LOZNITSA nel suo film Austerlitz girato nel campo di concentramento di Sachsenhausen ha fatto comprendere in maniera esemplare i pericoli causati dall’«industria della memoria»: la grave museificazione a servizio del turismo di massa. I due progetti illustrati da Gubler, sia quello italiano collocato in un’area centrale di Milano, sia quello francese nel quartiere periferico di La Muette, si collocano agli antipodi di questo modello di conservazione e di utilizzo di un bene culturale collegato alla Shoah. Entrambi erano luoghi di raccolta delle persone catturate per essere trasferite nei campi di concentramento.
A Milano, in via Ferrante Aporti, le leggi della logistica orribilmente modificate saranno applicate di sotto della piattaforma sopraelevata della Stazione centrale dove le vittime, passato il portico al piano strada, erano «inghiottite» con tecniche subdole di smistamento fino ai vagoni merci pronti per riceverli.

I PROGETTISTI HANNO riportato prima gli ambienti al loro stato originario per poi inserirvi «dispositivi» e funzioni necessarie per trasformarli non solo nello spazio della rimembranza ma anche in centro di documentazione e di incontro. L’idea generatrice del progetto è stata quella di condurre il visitatore dall’ingresso al piano di caricamento perché succeda «la presa di coscienza della situazione storica». Scrive Gubler: «Il rumore della struttura messa in vibrazione dal passaggio dei treni sul piazzale superiore ti paralizza». Solo attraverso il «processo di identificazione» ci si avvicina alla conoscenza del meccanismo della deportazione. Analogo meccanismo a quello milanese si adottò alla periferia nord-est di Parigi alla fine di una nobile storia urbana.

TRA IL 1932 E IL 1935, infatti, gli architetti Marcel Lods e Eugène Beaudoin fanno incontrare a Drancy la «poesia della tecnica» della serialità edilizia di Jean Prouvè e Vladimir Bodianskyla per la costruzione industrializzata di alloggi popolari. Il programma però a La Muette fallisce e si trasforma in un luogo destinato prima «alla sottomissione di popolazione di ultima categoria» e dopo con Pétain, tra il 1942 e il 1943, nel centro in mano ai nazisti per la deportazione antisemita. Oggi davanti al blocco edilizio a forma di U – monument historique e il solo salvato alle demolizioni degli anni Settanta – c’è l’occhio discreto e fisso dell’icastico parallelepipedo di sei piani in cemento armato di Diener & Diner Architekten. Dalle sue ampie finestre in avenue Jean Jaurès si guarda a quel luogo dell’orrore tornato alla vita e a un solitario vagone merci poggiato su un prato: una prova muta della tragedia degli ebrei razziati che ci rammenta la necessità di rimanere testimoni vigili.