«Siamo in guerra e dobbiamo comportarci di conseguenza». Dopo le stragi di Bruxelles, la reazione a caldo di Boualem Sansal non lascia spazio a dubbi quando invoca una risposta adeguata alla minaccia del terrorismo jihadista. I mezzi sono ovviamente culturali, ma poi aggiunge che occorre anche una «risposta militare». Lo scrittore algerino che dagli anni Novanta ha contrastato nel suo paese sia l’ascesa dell’islamismo armato che la deriva autoritaria del regime di Bouteflika, è stato allontanato dal ministero dell’Industria a causa delle sue prese di posizione critiche contro il regime algerino, ha messo del resto da tempo al centro del suo lavoro proprio la denuncia del fondamentalismo islamico, arrivando appunto a prospettare una risposta militare. Del suo percorso sono testimoni i romanzi.

Dopo Les serment des barbares (2008) e Il villaggio del tedesco (Einaudi), Sansal ha immaginato con 2084 (Neri Pozza, pp. 254, euro 17), romanzo che gli è valso il gran premio dell’Académie française e la nomination per il Nobel per la letteratura nel 2014, che una gran parte del mondo, ribattezzata come Abistan, al termine di una feroce guerra santa, di cui nessuno conserva però più memoria diretta, sia stata sottomessa da un regime autoritario islamista la cui vita quotidiana è scandita da pellegrinaggi senza fine e da punizioni pubbliche. Un romanzo che sembra interrogarsi anche sulla drammatica attualità rappresentata dall’emergere del sedicente Stato Islamico.
Il suo romanzo sembra iscriversi, fin dal titolo, nella stessa prospettiva distopica inaugurata da George Orwell con «1984»: il riferimento ai regimi autoritari del Novecento può perciò aiutarci a comprendere appieno la minaccia jihadista di oggi?

Forte della lezione della sua epoca storica, Orwell osservava come fossimo tutti destinati a vivere prima o poi all’interno di regimi totalitari. Così, con il suo celebre romanzo ha cercato di decodificare le strutture portanti di una organizzazione totalitaria della società: il ruolo e il profilo del «capo», il controllo esercitato sulla Storia, la lingua e via dicendo. Da quando ho letto la prima volta 1984, negli anni Settanta, mi sono chiesto quali punti di contatto avesse quanto vi era descritto con la realtà che stava crescendo intorno a me.

In Algeria, avevo dapprima assistito all’instaurarsi di un sistema poliziesco e militare e quindi all’emergere di un sistema altrettanto minaccioso ma di natura religiosa. Perciò, ho cominciato a interrogarmi sulla possibilità che gli elementi su cui si era concentrato Orwell, potessero essere validi anche per il totalitarismo di matrice religiosa che stava emergendo nel mio paese. Questo perché solo se si capisce il contesto in cui siamo precipitati possiamo trovare il modo di reagire e intraprendere il cammino verso la libertà.

Ne «Il villaggio del tedesco», nel quale provocatoriamente suggerisce un parallelo tra l’islamismo e il nazismo, lei racconta dell’ascesa di un nuovo fenomeno politico-religioso nelle periferie delle metropoli europee, come accaduto a Bruxelles. Di cosa si tratta?

Sì, per documentarmi sul contesto nel quale era cresciuto il personaggio di Malrich, figlio di un criminale di guerra nazista rifugiatosi in Algeria dopo il 1945, vale a dire la periferia di Parigi, ho fatto una sorta di viaggio in quei luoghi. Mi sono recato sul posto e ho incontrato gli abitanti, i genitori e gli amici di questi ragazzi reclutati dai predicatori islamisti nelle moschee più radicali. Nelle banlieue, il fatto che molti non musulmani abbiano scelto progressivamente di trasferirsi altrove ha finito per alimentare la deriva comunitarista e il senso di isolamento che si vive tra le famiglie di origine immigrata.

In questo contesto, l’influenza degli islamisti, che hanno poco per volta rimpiazzato il tradizionale islam pacifico e solidale dei quartieri dell’immigrazione con una sorta di bizzarro bricolage, nervoso, aggressivo, diffuso da degli «imam fai da te», ignoranti e capaci solo di ripetere in continuazione «Allah Akbar», non ha fatto che crescere, fino alla drammatica situazione in cui ci troviamo ora. In molti di questi quartieri l’intera comunità si trova ostaggio di un islam grottesco, di facciata, che si mostra attraverso quella sorta di divisa rappresentata dalla barba lunga per gli uomini e dalla gandura e il velo per le donne. Simboli che intendono incutere paura e rispetto con l’obiettivo di attirare i piccoli «duri» del quartiere, per trasformarli, come accaduto per esempio a Parigi e Bruxelles, in terroristi.

Nel mondo descritto in «2084» il tempo sembra essersi fermato. Quasi un’evocazione del clima che ha regnato a lungo, e continua a regnare anche oggi malgrado le primavere di rivolta degli scorsi anni, in buona parte dei paesi arabi, apparentemente immersi in un eterno presente senza prospettiva che ha finito per alimentare la crescita dell’islamismo. È così?

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In molti paesi del mondo arabo e musulmano gli orologi si sono fermati ormai da tanto tempo. E in ogni caso si tratta di un mondo che non funziona con gli stessi tempi, per esempio, dell’Europa. La scena è dominata da un immobilismo politico in grado di sopravvivere anche a scosse significative ma che non riescono mai a condurre a cambiamenti definitivi. Non a caso, i figli dell’élite al potere, come in Algeria, vivono lontani, spesso negli Stati Uniti ed in Canada, e quando rientrano in patria per prendere il posto dei loro genitori alla testa di questo o quell’apparato del regime, esprimono una mentalità paternalistica nei confronti dei loro connazionali considerati alla stregua di bambini che non potranno mai davvero crescere e assumersi delle responsabilità. Del resto, se ciò avvenisse, questi caid perderebbero tutti i loro privilegi. Così, almeno all’inizio, in molti casi si è preferito aprire agli islamisti perché continuassero a tenere buona la società procedendo, come accaduto proprio nel mio paese, verso una sua revisione per così dire in chiave religiosa. Dopodiché, «i barbuti» hanno cercato di prendersi l’intero potere.

Le sue posizioni sono state talvolta tacciate di islamofobia e c’è chi l’ha paragonata a Michel Houellebecq, l’autore di «Sottomissione». Cosa risponde?

Non sono islamofobo. Soltanto rifiuto ogni ideologia autoritaria, religiosa o laica che sia. Certo combatto e continuerò a combattere con tutte le mie forze gli islamisti radicali. Forse manca semplicemente un termine per descrivere ciò che provo e che scrivo: dovremmo coniare un neologismo come «islamistafobo» ma non ha un bel suono. In ogni caso, libertà significa anche poter dire che non si ama l’islam wahhabita dell’Arabia Saudita o l’islam tout court, senza per questo odiare nessuno. Le persone hanno il diritto di criticare ogni cosa, religioni comprese e soprattutto tutte le religioni se lo ritengono opportuno. Quanto a Houellebecq non saprei che dire. Con il suo romanzo si è occupato di questi temi ma ora è già passato ad altro. Per me è diverso: questa è la mia principale fonte d’ispirazione.

Ho cominciato a scrivere in un paese in guerra per colpa degli islamisti, dell’islamismo politico radicale. Sono cresciuto dentro questo conflitto. La comunicazione degli jihadisti ha puntato molto sul senso di colpa dell’Occidente, ma si deve fare molta attenzione a non finire per considerare gli aguzzini alla stregua delle vittime. Il vero problema è però rappresentato dal fatto che l’Occidente non oppone più alcuna idea e alcun valore alla minaccia jihadista, se non quella incarnata dall’ideologia del mercato e del denaro. Se non si tornano a difendere con forza i valori della libertà individuale e della democrazia, questa guerra è già persa in partenza.