Mentre Trump a Washington consolida l’amministrazione più misogina del dopoguerra, sugli schermi americani è tempo di una massiccia rappresentazione femminista. Sul piccolo schermo in particolare, lo sguardo delle donne vive un momento di particolare fermento.  Dalle piazze in cui sono sfilate le oceaniche womens marches di gennaio, alle «writers room» di Hollywood dove prendono sempre più piede le autrici, il momento culturale, galvanizzato dall’opposizione al becero neomachismo trumpista, appartiene in gran parte proprio a loro, alle donne. Il mese scorso ha visto la conclusione di Girls la serie di Lena Dunham che ha incarnato la satira «millenial» attraverso le avventure esistenzial-narcisiste delle quattro amiche brooklynesi, ma sono numerosi i programmi che riprendono il discorso in molteplici registri, come nel caso della neozelandese Chris Krauss, l’autrice di I Love Dick, l’omonimo romanzo cult adattato ora da Jill Soloway a serie tv, da oggi sulla piattaforma Amazon Prime Video, titolata con omonimo e squisitamente provocatorio doppio senso (dick in inglese è anche il nome gergale del pene, ndr).

Krauss è arrivata come aspirante film maker nella New York degli anni 90 e ha sposato Sylvere Lotringer, filosofo e teorico francese, fondatore della editrice Semiotext(e). La coppia frequenta gli ambienti accademici ed i salotti critici fra East Village e Los Angeles assieme a personaggi come Beaudrillard, Guattari  e artisti contemporanei. È in questo giro che Kraus ambienta nel ’95 il romanzo meta-autobiografico sulle  disavventure artistiche, affettive ed intellettuali di Chris e  Sylvere e sulla di lei ossessione erotica per Dick, un sociologo dei media, collega del marito durante un anno sabbatico in California.

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Il romanzo di satira «radical-gossip» diventa allora un caso letterario nella ristretta cerchia artistico-accademica di cui racconta pettegolezzi, malcelate personalità e verità artistiche in un ottica di introspezione femminista. Un testo «cult» che viene riscoperto con la riedizione del 2006 da esponenti della cosiddetta «terza ondata» femminista – come Lena Dunham – e da una nuova generazione  di lettori. Fra queste c’è Jill Soloway, che in Transparent ha indagato la fluidità «gender» della propria famiglia borghese ebrea di Los Angeles, e per estensione la comunità transgender. Ora, con la produttrice Sarah Gubbins  traspone sul piccolo schermo I Love Dick, storia che definisce: «Una commedia di sovversione matriarcale sul sesso e l’amore». Il romanzo si svolge fra New York e la California  ma nella versione di Soloway la storia  è ambientata interamente a Marfa, Texas  dove la protagonista, Chris (Kathryn Hahn), film maker in crisi creativa, accompagna il marito Sylvere (Griffin Dunne), studioso francese di olocausto per un corso di studi. Le insicurezze di Chris sfociano nell’infatuazione/ossessione per Dick (Kevin Bacon), un taciturno ed avvenente artista cowboy.

Marfa (già location di Marfa Girl di Larry Clarke) è un luogo topico e singolare del circuito artistico americano, un piccolo paese di allevatori nella pianura del West Texas, diventato anche improbabile colonia di artisti e critici, in seguito all’arrivo negli anni 70  dell’architetto e scultore concettuale Donald Judd. La fondazione che vi istituì ha fatto del minuscolo paese una meta per generazioni di artisti e studiosi in singolare simbiosi coi locali.  In I Love Dick è anche lo sfondo per la «soap opera artistica» come la definisce Soloway, una contemporanea fiera di vanità che mescola «autoironia d’avanguardia» e indagine su sguardo e desiderio femminile. «Ho voluto dedicarmi a questo progetto – spiega Soloway – perché in un certo senso  Dick rimanda  alla mia storia quando giravo Transparent. In fondo in quella prima serie stavo facendo un programma basato sulla mia vita come modo di esprimere il mio desiderio. I Love Dick parla di cosa significa affrontare la propria arte e confrontarla col mondo reale, con gente reale.  È un po’ il tragitto verso una maturità, la scoperta di un’identità artistica».

La regista scopre il libro grazie a un articolo pubblicato sul New Yorker: «Non avevo mai letto nulla di simile, il personaggio era così sfrontatamente sessuale, selvaggio ed incasinato, come nulla che avessi letto prima.  All’epoca stavo assieme ad Elieen (la poetessa Eileen Myles, ndr) e abbiamo parlato a lungo di un eventuale trasposizione tv. Lei mi ha suggerito di girarlo a Marfa. Lei abitava lì e io, ho pensato ‘questa donna deve essere pazza se crede che solo perché stiamo assieme sposto l’intera produzione nella sua città.’ Poi, più ne abbiamo parlato, più è stato evidente che sarebbe stato perfetto». «Marfa – sottolinea la produttrice Sarah Gubbins – è unica c’è una intersezione unica di gente che ci vive, i coltivatori e gli allevatori, una enorme popolazione ispanica  e poi le mucche, tante mucche. E la colonia di artisti nata negli anni 70 con Donald Judd  e la sua fondazione. E infine oggi tutti gli hipsters arrivati da Brooklyn che sono l’ultima onda e vivono tutti assieme in questo minuscolo paese di 2000 persone nel deserto. È un luogo unico che esula da ogni stereotipo. Per questo era la nostra location perfetta».

Marfa come luogo fondamentale dell’arte americana: «È una specie di meditazione – aggiunge Solloway – su cosa significhi essere un autrice donna e muoversi in un mondo fatto di uomini». E anche un «oggetto» femminista…: «Credo che sia la serie giusta per indagare e per sovvertire il patriarcato. Voglio dire c’è una consuetudine fra i conservatori qui in America di denigrare un uomo come «cuck» (cornuto), è l’insulto più spregevole nella cultura maschile di destra, per etichettare un maschio che si fa sottomettere dalla moglie. Nel libro e nella nostra storia abbiamo una figura maschile, quella di Sylvere, un europeo che non ha bisogno di sentirsi un «maschio alfa». Un uomo che ama sua moglie ed è capace di condividere con lei ogni sua fantasia. A me sembra così rivoluzionario che due persone si amino a tal punto di poter condividere la fantasia su di un altro uomo…».

I love dick sembra proprio un ottimo antidoto alla nuova presidenza Trump: «È  come se dopo la grande marcia delle donne adesso abbiamo bisogno di storie, film, programmi in cui facciamo sentire la nostra voce. Alla fine sono convinta che l’ascesa di Trump e tutte le altre cose negative che stanno accadendo nel mondo, debbano portare alla nascita di una nuova sinistra, più forte. Deve essere così».