È solo negli ultimi anni che l’attenzione editoriale e culturale si è concentrata sulla figura di Günther Anders (1902-1992), autore tedesco che – per sua esplicita vocazione – si è sempre posto ai margini dei dibattiti accademici, percorrendo con ostinazione una «via eccentrica». Allievo poco ortodosso della scuola fenomenologica di Husserl e Heidegger, e del neokantiano Cassirer, marito (per alcuni anni decisivi) di Hannah Arendt, vicino ma con riserva alla scuola di Francoforte e, durante l’esilio americano, alla cosiddetta «Altra Germania», Anders è un intellettuale «di frontiera», ben difficilmente incasellabile. Dai filosofi sistematici considerato troppo letterario, dai letterati troppo politico, dai politici troppo affabulatorio.

DI FRONTE a questi e altri tentativi di irrigidimento disciplinare, Anders rispondeva piccato: «Pensateci voi, se volete, a darmi un’etichetta. Io ho altro da fare». E questo «altro» – che poi è anche la cifra del suo nom de plume Anders (il nome di battesimo era Stern) – risponde a una esigenza morale ben precisa: quella di denunciare in tutti i modi, almeno dall’agosto del 1945 a oggi, la situazione post-drammatica di un «mondo senza uomo». Se infatti lo scenario aperto dai drammi del Novecento, con l’ascesa al potere del nazismo, l’esilio e la Shoah ha tracciato i lineamenti dell’«umanità senza mondo», la distruzione di Hiroshima e Nagasaki ha delineato lo scenario del «mondo senza uomo». Da questo momento di non-ritorno la questione dell’atomica, e della minaccia nucleare, ha catalizzato le energie di Anders, che – come libero giornalista, e come critico del suo tempo – si è immolato al ruolo di scuotitore delle coscienze.

In questa cornice rientra la sua rinuncia a ogni esercizio del pensiero che non sia riferito a un problema attuale, e la teorizzazione della necessità di una «filosofia d’occasione», ossia di una riflessione che si origina da fatti empirici. A questo suo impegno si devono diversi studi, dalle riflessioni sulla mostruosità della «bomba» contenute nel capolavoro L’uomo è antiquato (1956 e 1980) alle annotazioni «autobiografiche» del Diario di Hiroshima e Nagasaki, fino alle pagine toccanti dell’epistolario con il meteorologo texano Claude Eatherly, che, dando il via libera allo sgancio dell’atomica sulla città di Hiroshima, si rese «incolpevolmente colpevole» della morte di duecentomila persone, e che fu tragicamente segnato da questo suo «ufficio».

UN IMPORTANTE TASSELLO di questo mosaico andersiano è rappresentato dal volume dal titolo provocatorio I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali (Medusa, pp. 102, euro 14.50, traduzione di E. Mori). Si tratta di un volume contenente due testi pubblicati da Anders, di cui uno, risalente al 1964, ha lo stesso titolo del libro e l’altro invece, intitolato Hiroshima è dappertutto, è datato 1982. Ai saggi andersiani seguono, in appendice al volume, alcuni scritti di Karl Jaspers, Maurice Blanchot, André Glucksmann e John Rawls, sulla questione della minaccia atomica, che arricchiscono la prospettica andersiana.

Il motivo centrale e ricorrente di queste riflessioni di Anders è la questione della discrepanza prometeica tra il produrre (herstellen) e l’immaginare (vorstellen). Quel che caratterizza la natura umana, almeno dal primo conflitto mondiale, è lo scarto tra quel che l’uomo può fare (con l’avanzare della tecnica) e quel che può comprendere delle sue azioni. Di qui quella forma di anaffettività che Anders definisce «analfabetismo emotivo»: siamo più piccoli di noi stessi in quanto incapaci di immaginare e sentire ciò che tuttavia produciamo. A maggior ragione siamo incapaci di sentirci responsabili, o siamo incapaci di portare il lutto per i nostri morti.

E QUESTO DIPENDE dal fatto che sono milioni quelli che dobbiamo piangere. Ma proviamo a evocare l’immagine di milioni di morti! Di fronte a grandezze così abnormi la percezione si blocca, e il rimorso non si attiva. Ma questa incapacità è la cifra dell’obsolescenza dell’umano. Scrive Anders: «Restiamo manchevoli (…) non siamo all’altezza dell’enormità della “Cosa” che vogliamo piangere». Di qui il nostro fallimento a celebrare il lutto. Un lutto che si articola su tre punti: il primo riguarda gli esseri umani che abbiamo perduto; il secondo il fatto che costoro sono morti per nulla; il terzo generato dalla presa di coscienza che la perdita è troppo grande perché ci sia possibile piangerla. È per questo che Anders parla di una forma di «cecità» umana che, da novello «apprendista stregone», sotto la bandiera del progresso, produce la propria stessa distruzione, ne è collaboratore e coautore. In questo senso viviamo nel Tempo della fine (Endzeit), in un contesto di “morte sospesa” che potrebbe trasformarsi in una vera e propria fine del tempi (Zeitende). Sono questi i termini del «principio disperazione» professato da Anders in contraltare rispetto al «Prinzip Hoffnung (principio speranza)» di Ernst Bloch. Il compito dell’umano è allora quello di «assaltare i limiti» della propria coscienza, per rientrare in contatto con le proprie emozioni, e di qui imparare a disperarsi. Ormai solo la disperazione ci può salvare.