Enrico Letta apre l’esperienza delle Agorà Democratiche. E’ la piattaforma del Pd per ospitare e organizzare i dibattiti di cittadini e attivisti (aperta a iscritti e non) per creare lo spazio di partecipazione di un “nuovo partito” (come Letta stesso lo ha definito), e assistere i decisori connettendoli con i pubblici di riferimento, prospettando centinaia di migliaia di utenti coordinati tramite la piattaforma.

Augurando i migliori risultati all’iniziativa, è utile descriverne i limiti che gli studi su questo tipo di piattaforma hanno già evidenziato, e proporre alcune riflessioni sullo sviluppo e sul godimento di queste nostre democrazie che si affacciano ai dati e alla computazione.

Alla base di Agorà Democratiche c’è il software di Decidim, progetto nato a Barcellona nel 2016 grazie all’amministrazione cittadina, e ormai usato in dozzine di istanze in tutto il mondo.

È una piattaforma dedicata alla collaborazione pubblica in cui le persone che vi partecipano hanno spazi per fare proposte e votare, organizzare incontri, fare consultazioni, scrivere insieme e commentare, nel tentativo di far emergere forme di intelligenza collettiva.

La piattaforma si evolverà in tre fasi:

  1. il “decollo“, in cui un test di pre-Agorà sarà promosso centralmente per verificare le funzionalità;
  2. il “viaggio“, in cui le funzionalità saranno aperte a tutti;
  3. l’“atterraggio”, per tentare di implementare i risultati emersi dalle Agorà Democratiche, all’inizio del ’22.

In questa prima fase si parte da due temi preimpostati (“l’Italia che vogliamo” e “la Democrazia che vogliamo”), ognuno con una serie di macro-aree tematiche che coprono:

  • digitalizzazione
  • innovazione
  • competitività
  • turismo
  • transizione ecologica
  • infrastrutture
  • sostenibilità
  • giovani
  • istruzione
  • ricerca
  • cultura
  • parità di genere
  • coesione territoriale
  • inclusione sociale
  • riforme
  • giustizia
  • legalità
  • fisco

A differenza del corrispettivo 5Stelle Rousseau, Agorà Democratiche è Open Source. E questo è indiscutibilmente un bene.

Per esempio, il codice aperto consente agli esperti di analizzarne il funzionamento, di aggiustare falle logiche e per la privacy, di spiegare (e di mettere in dubbio) i meccanismi tramite cui avvengono le decisioni e le rappresentazioni dei dati, e così via.

Se il codice aperto è un presidio democratico necessario, non risolve certo tutti i problemi.

In prima battuta, a beneficiare di questa promessa di trasparenza sono gli esperti capaci analizzare il codice.

In seconda battuta, se il codice è open, nulla assicura che lo siano anche i processi.

In questo tipo di piattaforme le persone (gli utenti) sono chiamate ad aderire, partecipare ed esprimersi sull’agenda impostata da una qualche forma di dirigenza, all’interno del perimetro da essa descritto. Il codice aperto non serve a nulla per comprendere strategie e dinamiche che li determinano.

Può essere d’aiuto, a questo punto, allargare l’inquadratura, e osservare la condizione psicologica ed esistenziale degli utenti di questa ed altre piattaforme.

Stiamo parlando, solo in Italia, di circa 35 milioni di persone (il numero di italiani che usano i social network nel 2020; fonte We Are Social), ognuna delle quali è coinvolta in dozzine di nicchie informative e comunicazionali molto limitate, con poca diversità e percezione di cosa c’è oltre il confine della nicchia stessa.

Si passa il tempo a darsi ragione a vicenda e, qualora ci fosse un parere differente o polarizzante, sarebbe indistinguibile dall’azione di un generico troll (i soggetti che, spesso maliziosamente e strategicamente, irrompono nelle discussioni e vi portano scompiglio). Il risultato sarebbe comunque lo stesso: il blocco, il ban.

È una condizione difficile e complessa, in cui riuscire ad affrontare le differenze e i conflitti diventa problematico, e con una forte questione aperta su tutto ciò che riguarda il senso di appartenenza, l’accettazione e l’accettabilità della propria identità, che diventano spesso il veicolo di vere e proprie ondate di disinformazione, come indicato anche dai report della Commissione Europea in materia.

Al contrario, gli strumenti di blocco, separazione e allontanamento della diversità sono a portata di mano, accessibili: ci si chiude sempre di più nelle proprie bolle.

Il tutto aggravato da un cinismo diffuso, in cui le persone si sono ampiamente abituate alla contabilizzazione delle proprie espressioni ed emozioni, a suon di conteggi di like, cuoricini, connessioni/amicizie e successo quantificato attraverso le proprie espressioni e autorappresentazioni. Alcune persone ci costruiscono sopra carriere di successo. Le più fragili finiscono dallo psicologo, se possono permetterselo.

Che cosa succede quando una piattaforma come Agorà Democratiche entra in uno scenario del genere per fare politica diffusa? Ovviamente non lo possiamo sapere con esattezza, ma lo stesso possiamo usare ciò che sappiamo dalla storia delle altre piattaforme per prepararci meglio.

Si può notare, per iniziare, come il sistema sia volto alla creazione di consenso più che ad abilitare la coesistenza nella differenza: in questo genere di piattaforme si vota pro o contro le proposte, cercando di formare una qualche maggioranza.

La presenza di meccanismi creativi come quelli di Decidim, che per esempio consentono di formare task force in maniera casuale per diminuire il rischio di bias, non cambia la sostanza. L’obiettivo resta il consenso. E se ci sono solide argomentazioni per preferire i sistemi volti alla ricerca della coesistenza, il punto è problematizzare l’inserimento di queste piattaforme nel contesto che abbiamo descritto.

Il modello proposto è sostanzialmente di tipo plebiscitario. Le domande sono date, i temi anche, e così le risposte tra cui scegliere. Il modo per aggiungere domande e risposte ovviamente c’è, ma è anche altamente codificato e non immediatamente accessibile, in quanto richiede grandi consensi per effettuarlo con efficacia. In mancanza dei grandi numeri i problemi vengono risolti come si risolvono altrove su Internet: con l’irrilevanza, al modo della coda lunga, in cui spesso, nel mare infinito delle pubblicazioni, gli unici acquirenti dei propri libri sono gli autori stessi che li regalano ad amici e parenti. E, come sappiamo, molte questioni importanti spesso non hanno grandi consensi: se non fanno parte dell’agenda, o se non vengono inseriti dall’alto, sarà difficilissimo che emergano.

Il risultato è un sistema populista. Con gli ovvi pro e contro: se da un lato potrebbe esserci un maggiore ed effettivo coinvolgimento espressivo della popolazione, dall’altro gli unici capaci di beneficiarne politicamente ed economicamente sarebbero i gestori della piattaforma, cioè quelli capaci di intestarsi questa sollecitazione popolare. In questo modello il banco vince sempre.

Non si sa ancora quale sarà la politica di apertura dei dati generati dalla piattaforma (e, soprattutto, di quali dati), e su questo speriamo sinceramente di essere positivamente stupiti, riservandoci di fare un secondo articolo.

Ci limitiamo qui a trarre una breve serie di conclusioni.

Nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso, nei nuovi modi del lavoro (della precarietà) e dell’abitare, serpeggia la difficoltà nel concepire e trovare di chi fidarsi. La politica ci ha deluso. Il lavoro ci ha deluso. La comunicazione ci ha deluso. Le scienze ci hanno deluso. Le nicchie informazionali in cui viviamo sono espressione diretta di questo sentire. Ci si chiude nelle sacche in cui si può dire che la Terra è piatta o che il cambiamento climatico non esiste: ci si sente di appartenere; si seguono le narrative che scorrono nella tribù; si trovano comunità di cui ci si può fidare, qualsiasi cosa dicano.

Il desiderio di trovare modelli e mezzi tecnici per automatizzare la fiducia è grande.

I rapporti vengono progressivamente formalizzati, codificati e transazionalizzati. Tutto diventa progressivamente una transazione che può essere ospitata su una blockchain o su una piattaforma, a cui può essere dato un valore: che siano cuoricini, token o euro fa poca differenza, purché si possano contare. A seconda del valore cambia il proprio ruolo. Può essere applicato su tutto: su un servizio, sull’arte, sulla partecipazione politica.

È la finanziarizzazione completa della vita.

Le cose, ovviamente, non devono andare per forza così.

Anziché realizzare piattaforme centrali – seppur con funzionalità di gestione territoriale – si potrebbe/dovrebbe scegliere la strada della cyberdiversità interoperabile, che consiste nel prendersi cura di territori, comunità e nicchie per abilitarli a costruire le proprie facoltà di autorappresentazione e assicurarsi che queste espressioni siano interoperabili, ovvero che gli effetti di queste rappresentazioni si possano propagare tra i sistemi: orizzontalmente, trasversalmente, verso l’alto e verso il basso, per rendere possibili sia gli scambi che i conflitti.

Stiamo parlando di uno sforzo concettuale e organizzativo che, prima di buttare giù una singola riga di codice, richiederebbe la creazione di azioni diffuse di formazione e immaginario. Invece avviene il contrario.

Le tecnologie sono prima di tutto una questione del sentire, e solo poi dell’usare.

Il rapporto tra esseri umani si può descrivere come un ciclo: gli esseri umani inventano le tecnologie e le tecnologie inventano gli esseri umani. Questo ciclo, attualmente, è pericolosamente asimmetrico: piccolissime parti della popolazione approntano gli strumenti che muteranno i molti.

È un approccio colonialista ed estrattivo, che a proporlo sia la destra o la sinistra. E, come vediamo negli ultimi anni, provoca nuove forme di lavoro su cui non ci sono patti sociali concordati dignitosamente tra le parti, problemi di sostenibilità psicologica diffusa, e approcci interventisti sulla psicologia delle persone tramite le tecniche di gamification, audience development e di engagement.

Il rischio serio è di migrare da una piattaforma all’altra: uguale e con le stesse logiche, seppur open source. Per mancanza di altri immaginari su cosa possa essere una piattaforma, stiamo industrializzando i rapporti di fiducia, e codificando diminuisce la capacità di informalità e di convivialità della vita democratica e la stessa negoziabilità del reale.

Tutto si trasforma in un servizio e la politica gradualmente diventa customer satisfaction (soddisfazione del cliente).

È un altro realismo capitalista, per cui si fa fatica a immaginare qualcosa di diverso – tanto che a scrivere e ideare questa piattaforma sono attivisti che nella loro vita si sono battuti ovunque contro i populismi, i fascismi, i totalitarismi. E lo stesso sono invischiati in questo mono-immaginari.

Tutto ciò, secondo chi scrive, causerà grandi difficoltà per il manifestarsi dignitoso dei conflitti, per abbracciare la complessità dei compromessi e delle mediazioni necessari alla coesistenza nella diversità, contribuendo all’industrializzazione insostenibile della politica.

Servirebbe una diversità di tecnologie e strumenti che crescano localmente, lentamente, vicino alle persone e capaci di comunicare tra loro. Tecnologie simili alle piante, piuttosto che a piattaforme industriali. Tecnologie che crescano in un habitat e un contesto: le piante hanno bisogno di un clima, di una chimica, di una serie di relazioni con l’ambiente. L’industria può crescere ovunque, basta spianare tutto e costruirci sopra lo stabilimento di produzione.

Alla democrazia non serve (solo) un software open source. Ciò che serve è una nuova immaginazione sociale, una cosmologia che trasformi e ci aiuti a comprendere la posizione dell’essere umano nel mondo dei dati e della computazione.

Salvatore Iaconesi e Oriana Persico hanno fondato HER SHE Loves Data/Nuovo Abitare. Insieme a noi stanno lavorando a MeMa, la nuova Intelligenza Artificiale del manifesto, che sarà presentata in autunno nell’ambito del cinquantenario del giornale