Venerdì prossimo, 29 settembre, in occasione del secondo anniversario della sua scomparsa, la Casa circondariale e l’Università di Bologna, apriranno al pubblico la biblioteca di Massimo Pavarini nel carcere della sua città.

Per volere dei familiari e con il concorso di molti (non ultima la Società della Ragione, che ha devoluto i fondi raccolti con il 5×1000 all’acquisto delle scaffalature lavorate dai detenuti della Dozza per ospitarne i libri), si compie così un desiderio di Massimo.

Paradossale lascito, questo, per un abolizionista, salvo che si tenga nel debito conto il doppio movimento che una biblioteca come quella può suscitare in carcere, invogliando gli studiosi della pena a entrarvi (seguendo l’ammonimento di Calamandrei: «bisogna aver visto» per discutere del carcere e delle possibilità di una sua riforma) e stimolando i detenuti a evadere dalla propria condizione attraverso lo studio e la conoscenza.

Nel pomeriggio, sempre a Bologna, Studi sulla questione criminale, la rivista che fu di Pavarini e che prosegue la tradizione della criminologia critica italiana, presenterà al pubblico il fascicolo doppio dedicato alla sua sociologia della pena. Sarà l’occasione (e altre ne verranno, speriamo, in molte altre città) per ripercorrere i temi e gli argomenti del pensiero e della ricerca di Pavarini, e di misurarne la rilevanza di fronte ai quesiti e alle sfide di oggi.

Il sistema penitenziario italiano, si sa, sta lentamente scivolando in un nuovo sovraffollamento: in poco più di un anno e mezzo, le persone detenute sono cresciute di più di cinquemila unità, superando la soglia delle 57mila.

Il respiro che la sentenza Torreggiani aveva dato al sistema penitenziario italiano, incentivando norme e pratiche per la decarcerizzazione, si è fatto corto e già si sente, in qualche istituto, la reazione di chiusura di un corpo in affanno.

Nel frattempo, però, sono al lavoro le commissioni ministeriali che dovrebbero disegnare il nuovo volto all’ordinamento penitenziario, dando traduzione normativa non solo alla delega conferita dal Parlamento al Governo con l’approvazione della legge Orlando, ma anche alle centinaia di proposte e allo spirito riformatore che hanno animato gli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal Ministro della giustizia all’inizio del suo mandato.

Immediato pensare che l’una cosa possa rispondere all’altra, che la riforma dell’ordinamento penitenziario possa ridurre il sovraffollamento e riprendere la strada maestra della decarcerizzazione.

E chiunque conosca la realtà del carcere non può che sperare che sia così, e invocare l’argine del diritto e della ragione contro l’abuso della privazione della libertà e della sofferenza inflitta legalmente.

Ma il realista Pavarini ci metterebbe in guardia dal coltivare eccessive speranze: il diritto penale è uno strumento determinato politicamente e affidato al consapevole esercizio dei suoi operatori, la cui principale qualità sta nel saper interpretare lo spirito del tempo e la domanda sociale di controllo e di sofferenza penale.

Se nella società italiana covano sentimenti di paura e di esclusione, non sarà una norma illuminata a cambiare la sorte del sistema penitenziario e dei suoi ospiti abituali.

Che fare, allora? Rinunciare alle possibilità di una riforma e limitarsi a curare le ferite dei detenuti?

No, non credo che neanche questo avrebbe condiviso il pragmatico Pavarini: comunque il diritto è – appunto – uno strumento, e la sua configurazione può agevolare o resistere al suo uso populistico. Facciamola, quindi, questa riforma, sfidando gli imprenditori politici della paura su un’altra idea della giustizia e della convivenza civile.