Per Gramsci non esisteva solo la classe operaia. Nato lontano dalle fabbriche torinesi, egli pensava a un blocco storico del proletariato industriale e contadino con gli intellettuali. Se questo per il giovane Asor Rosa di Scrittori e popolo (influenzato da Mario Tronti e su questo tema anche da Rosaro Romeo) era il peccato mortale che dissipava le conquiste «operaiste» del Biennio rosso, per Ernesto Laclau si trattava invece dell’eredità dei Quaderni del carcere più feconda per la post-modernità: la soggettività popolare non si identifica con una singola classe, ma con un’articolazione di diverse istanze da unificare con uno sforzo di tipo simbolico-comunicativo. In tal senso Laclau ritiene di poter ancorare al pensiero gramsciano la sua riattivazione del termine populismo in una piattaforma politica di sinistra: anche in questo caso veniva capovolta la valutazione di Asor Rosa che invece, nel suo testo del 1965 (ma già nel decennio successivo la sua posizione sarebbe stata sensibilmente diversa), denunciava proprio il «populismo» di Gramsci sussumibile nel paradigma moderato-trasformistico e modernizzatore-conservatore dell’Italia post-unitaria.

In questo senso Asor Rosa chiamava in causa anche la nozione gramsciana di nazionale-popolare, che in seguito avrebbe legittimato persino tentativi di appropriazione del pensatore sardo da parte della cultura di destra. Ma il termine nazionale-popolare in Gramsci non significa ciò che noi ormai indichiamo (elidendo impropriamente una e) come «nazional-popolare», cioè certa cultura di massa, né il folklore, bensì le produzioni artistiche profondamente legate a un contesto storico-culturale nazionale, che però assumono un significato paradigmatico di valenza universale (la tragedia greca, il romanzo russo, l’opera lirica italiana …). Il russo Narodnost, da cui deriva il gramsciano nazionale-popolare, o popolare-nazionale, non è insomma un calco dal tedesco Volkstum o – come voleva Romeo – un’idea ispirata dal populismo russo.

TUTTAVIA, se sembra problematico il rimando di Gramsci a un immaginario «populista» in senso puramente romantico (la «spontaneità» deve sempre andare insieme alla «direzione»: il senso comune da valorizzare politicamente non è quello già dato), anche La ragione populista di Laclau appare forzare il concetto di egemonia in una visione di tipo linguistico-libidinale che rimuove la sostanza storico-materialistica dei Quaderni. Di fronte a queste diverse interpretazioni nasce la domanda: quale fu l’effettivo utilizzo che del lemma «populismo» fece Gramsci? Innanzitutto bisogna distinguere fra gli scritti pre-carcerari e quelli posteriori all’arresto. Fra il 1919 e il 1926 Gramsci utilizza il termine in linea con la semantica bolscevica e leniniana e con riferimento all’omonimo movimento politico russo. Venati di utopismo e di intellettualismo, i populisti russi mettevano al centro della rivoluzione la sola classe contadina e come i menscevichi tendevano al compromesso con la borghesia.

NEI QUADERNI Gramsci non utilizza spesso il termine, nella sua forma aggettivale o sostantiva, anche se lo fa più volte di quanto risulti dall’indice dei temi dell’edizione Gerratana. Emerge una valutazione negativa, ma non in toto. Cioè da un lato Gramsci fa riferimento al populismo in modi che appaiono molto lontani dall’utilizzo del termine da parte di Laclau: per Gramsci, cioè, il populismo è un atteggiamento culturale-politico inadeguato all’emancipazione delle masse popolari. Dall’altro, egli vede nel populismo elementi di interesse nella misura in cui si tratta pur sempre di una forma di avvicinamento degli intellettuali al popolo, in un panorama socio-culturale italiano storicamente deficitario in questo senso.
Non sfugge che l’arricchimento semantico che l’utilizzo del termine populismo segna nei Quaderni rispetto agli scritti giovanili è da attribuirsi al diverso quadro di motivazioni politiche e interiori che muovevano il pensiero gramsciano: era necessario, negli anni del carcere, spiegare il perché della sconfitta del movimento operaio ed elaborare una visione alta della politica, capace non solo di sviluppare antagonismo, ma anche di comprendere il nucleo di verità affermato da avversari e nemici.

Nei Quaderni 3, 8 e 15, in realtà, Gramsci resta nella sfera semantica leniniana, assimilando ai populisti il trasformismo di certi settori del socialismo italiano del primo Novecento e i limiti del pensiero di Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane. Ma nel Quaderno 6 possiamo vedere come il comunista sardo inizi a usare il termine anche per definire fenomenologie «borghesi» e di «destra», anticipando il significato che oggi si conferisce più diffusamente alla parola.
Criticando un articolo di Arrigo Cajumi su Giovanni Cena, ad esempio, riferisce il termine a un atteggiamento che vorrebbe essere popolare ma che non riesce a esserlo, mantenendo una scissione elitaria con il «popolo» stesso; e, dall’altro, a uno scrittore che – nota Gramsci – nel suo miscelare orientamenti socialisti ad aperture al nazionalismo anticipava il fascismo.

SEMPRE nel Quaderno 6 Gramsci parla di una «andata al popolo» di alcune correnti letterarie francesi come segno del tentativo della borghesia di rilanciare la sua egemonia sulle classi popolari assorbendo una parte dell’ideologia proletaria. Per lui tale movimento non era da sottovalutarsi, dato che si trattava pur sempre di una tendenza a superare il democratismo «formale» in forme più sostanziali.
Nel Quaderno 23 si sarebbe spinto oltre nell’utilizzo in positivo del termine parlando del De Sanctis realista nell’ambito di tendenze populiste che nel secondo ottocento si ponevano il problema delle classi popolari andando oltre il limite «poliziesco» dell’idea di Nazione della borghesia post-risorgimentale. E nel Quaderno 15 si dissociava dalla posizione del comunista Paul Nizan che opponeva la «verità rivoluzionaria» alla «verità umana», criticando i tentativi populistici di alcuni scrittori francesi. Per Gramsci la ricerca di radicamento nel contesto storico-sociale era necessaria a una letteratura in cui potesse scorrere la vita: e, come sappiamo, tale dimensione era in contrapposizione con il cosmopolitismo delle élites intellettuali slegate dalla base sociale, ma non certo con un universalismo concreto, di cui doveva sostanziarsi la liberazione internazionalista (niente a che fare, quindi, con identitarismi e nazionalismi italici).

ECCO PERCIÒ che si può dire che Gramsci non utilizzasse il termine populismo come uno stigma, e fosse anzi attento a cogliere in esso, come prassi o come rappresentazione culturale, gli elementi da sviluppare in una politica di emancipazione. Questo atteggiamento di apertura è alla base anche del suo giudizio sui fenomeni che al tempo di Gramsci ancora non venivano definiti come populisti dal lessico politico, e che oggi ne costituiscono invece paradigmi considerati classici, come ad esempio il boulangismo, per non dire delle note pagine sul cesarismo e bonapartismo. Analizzando tali fenomeni Gramsci era lungi dal gridare alla catastrofe irrazionalistica, provocata dalle capacità illusionistiche del potere, ma cercava di comprendere la loro razionalità interna, che riusciva a comporre gli interessi della classe dominante con alcune esigenze dei subalterni. Capire ciò sarebbe utile anche per ricostituire oggi le basi di una politica che sia appunto, gramscianamente, popolare e non populistica, secondo il significato che il termine ha assunto nel secondo Novecento.

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Venerdì a Roma Tre

Dalle 14.30 alle 19.30, a Roma Tre, presso il dipartimento di Filosofia, comunicazione e spettacolo (di via Ostiense 236, aula Matassi, piano terra), avrà luogo il seminario della Igs Italia, «Gramsci e il populismo». Coordina Guido Liguori. Relatori: Salvatore Cingari, «Gramsci e il populismo: una introduzione», Raul Mordenti, «Popolo e populismo nei Quaderni», Pasquale Voza, «Gramsci e il populismo secondo Laclau». Interventi di Manuel Anselmi, Francesco Campolongo, Martin Cortes, Eleonora Forenza, Chiara Meta, Michele Prospero.