Franklin Delano Roosevelt, ricorda Kiran Klaus Patel in apertura del suo recente Il New Deal. Una storia globale (Einaudi, pp. 531, euro 34), non amava volare. E quando parlava del New Deal, aggiunge lo storico tedesco-britannico di origine indiana, non dimenticava mai di sottolineare «qui in America», come se i problemi del resto del mondo fossero sostanzialmente diversi.
D’altra parte, la Depressione ridusse notevolmente le possibilità degli Americani di viaggiare per il mondo, mentre alle restrittive politiche migratorie adottate negli «anni ruggenti» si sovrapponeva una nuova forte ventata isolazionista, o comunque unilateralista. Il che non toglie tuttavia che questa importante stagione di riforme d’oltre Atlantico si inserisca nel quadro mosso e ibrido della storia transnazionale e globale: quadro che Patel prova a restituire, smentendo una sua presunta natura endogena ed eccezionalista. E scoprendo dunque – ma invero già un po’ lo sapevamo, se solo avevamo letto i lavori di storia comparata sul tema di Maurizio Vaudagna, Hans-Jurgen Puhle, Ira Katznelson, Danielo T. Rodgers e Wolfgang Schivelbusch – che quella stagione non poco doveva all’interazione, diretta e indiretta, con innumerevoli attori sparsi fuori degli Usa.

TOUR DE FORCE condotto in larga parte su una vasta letteratura secondaria intorno alle risposte alla Grande crisi in almeno sette lingue, il lavoro si segnala anche per una felice qualità di scrittura, che consente al lettore di muoversi con una certa disinvoltura fra le volute di un tomo non esattamente da comodino, in mezzo a continui e affascinanti rovesciamenti di scenario geografico, in una marea di vicende politiche ed economiche per la prima volta riconsegnate alla trama mondiale alla quale appartengono.
Nato, come ricorda Patel nella premessa all’edizione italiana, negli anni immediatamente precedenti l’inizio del mandato di Donald Trump, il libro, dice l’autore, risulta oggi se possibile ancora più tempestivo, vista l’esigenza impellente di «ricordare quest’altra America del New Deal», ma senza tentazioni compiaciute e narcisistiche. Piuttosto con l’intenzione di mostrare «quanto sia stato importante il New Deal per la storia del mondo, ma anche quanto lo sia stato il mondo per la storia del New Deal».

Due le tesi chiave del volume. La prima è appunto che, se paragonate a quelle di altri paesi industriali, anziché un’eccezione, le risposte economiche e politiche alla crisi date dai new dealers appaiono spesso sospese fra due estremi presenti sulla scena internazionale.
Ad esempio, rispetto al dilemma cruciale laissez faire-interventismo, in realtà, secondo Patel, gli Stati Uniti non scelsero davvero né l’una né l’altra soluzione. Le loro politiche concrete gravitarono per lo più intorno a una forma moderata di intervento e mobilitazione dello stato federale, spesso contraddicendosi, fra battute d’arresto e fallimenti che non ne impedirono lo sviluppo. Furono il frutto di una continua sperimentazione e della disponibilità a guardare con curiosità e pragmatismo alle pratiche internazionali più diverse, dalla Svezia socialdemocratica alla stessa Italia fascista.

SE DUNQUE Roosevelt non amava volare, molto si muoveva, però, grazie agli scambi intessuti da lui e dai suoi collaboratori, fisicamente e virtualmente, dentro e fuori dell’emisfero occidentale. Tanto da indurre Mussolini, alla luce delle simiglianze, reali e presunte, fra la National Recovery Administration e l’Istituto per la Riconversione Industriale a rivendicare impettito che «l’atmosfera nella quale tutto il sistema dottrinario e pratico» del New Deal «si muove è certamente affine a quella del fascismo». Salvo dimenticare naturalmente che il New Deal restava saldamente ancorato entro i binari della liberaldemocrazia, nonostante le accuse, alternativamente, di fascismo e bolscevismo, che gli giungevano, rispettivamente, da sinistra e da destra.

AL TEMPO STESSO, dagli anni Quaranta i metodi di indagine sviluppati e perfezionati negli Stati Uniti su questioni come la sicurezza e lo stato sociale, divennero un punto di riferimento in chiave modernizzatrice per l’America Latina e l’Asia. E così si passa alla seconda tesi di Patel. Che, cioè, la risposta apparentemente «nazionale» del New Deal costituì al contrario il requisito essenziale e l’impalcatura istituzionale della costruzione di un’egemonia globale in cui, scrive l’autore, «alcuni critici hanno intravisto un nuovo impero mondiale». E qui la brillante carrellata di Patel mostra decisamente la corda, adombrando processi di diffusione del modello che tendono a sottovalutare la natura egemonica e di potere del rapporto Usa-mondo.