Sono una donna che ha una relazione positiva con il proprio lavoro. Non so perché, ma nel rileggere ad alta voce questa affermazione provo quasi un senso di imbarazzo. La consapevolezza di un privilegio che non tutte possono permettersi. Oppure il pudore nell’esprimere il piacere, retaggio di una mentalità catto-patriarcale che sopravvive anche negli ambienti della sinistra politica.

Sarà forse perché quando si deve parlare del rapporto donne-lavoro ci si concentra spesso più sulle difficoltà che sugli aspetti positivi. Non è uno sminuire o negare problematiche che ancora ci portano ad essere uno dei paesi europei con il tasso più basso di occupazione femminile. Sarà perché il mio lavoro è proprio quello di progettare e mettere in atto nuove pratiche di attivazione, sperimentazioni volte a favorire per le donne, quell’equilibrio spesso mancante tra esigenze lavorative e tempi di vita/famigliari. Il mio lavoro è supportare altre donne a trovare lavoro.

E quindi le conosco le storie, i volti, i bisogni, le discriminazioni, le carenze strutturali del nostro welfare, la burocrazia dei nostri servizi…ma appunto, oggi non vorrei parlare di questo. Dal macro scivolo nel micro, nel mio quotidiano e, per una volta, inverto la prospettiva e mi autotrasporto sotto una lente di ingrandimento.

Il rapporto con il lavoro, un difficile intreccio dialettico tra storia collettiva, strutture di potere e singole biografie di vita. Nel raccontare di sé, quanto ne siamo influenzate?

Più scrivo, più si manifestano dubbi, interrogativi: cos’è il piacere per il proprio lavoro? Ha a che fare con una dimensione etica, di autorealizzazione, politica, di benessere personale? Nella mia lista mentale di priorità non trovo parole come denaro e carriera…eppure sono elementi importanti, essenziali anche per la propria sopravvivenza, la propria indipendenza.

Come tante e tanti, è dai primi giorni di marzo che lavoro tutti i giorni da casa, letteralmente un homeworking più che uno smartworking. Quale che sia, è stato concepito come una modalità organizzativa dal potenziale innovativo e di liberazione del tempo per sé, che va ad intervenire sul quel famoso riequilibrio. Nella pratica di oggi, uno strumento vissuto per molte donne come una trappola, carichi di lavoro aumentati e neanche la possibilità della pausa caffè con i colleghi. Molti sono gli articoli e le ricerche in merito, volti ad evidenziare come la fase COVID-19 abbia portato con sé un aumento delle discriminazioni di genere e relative visioni stereotipate dei ruoli sociali. Nulla di nuovo, come se bastasse una modalità organizzativa, anche se innovativa, a mettere in discussione ruoli e comportamenti considerati come “naturali”, senza un accompagnamento culturale. L’illusione che uno strumento, in sé, possa avere un impatto “neutro”.

Ma ritorno al biografico, perché la mia esperienza è diversa da molte altre donne, ma premetto che non ho figli e ho un compagno piuttosto autosufficiente che non necessita di essere lavato e imboccato. E’ in grado persino di fare la lista della spesa, capire che sta finendo il sale, l’olio, il pane…  Quindi, a casa in smart, me la sto passando tutto sommato bene, più concentrazione, più creatività e tempo per far passeggiare gambe e cervello. Più tempo per me. Tutto bene quindi? Un altro tassello verso il piacere? Forse, intanto molti uomini, anche colleghi, stanno tornando al lavoro, in presenza, e incominciano a rincontrarsi in quei corridoi dove, fra l’informale e il cameratesco, si decidono le strategie di avanzamento e di carriera. Le donne rimangono a casa, nel praticare il loro multitasking quotidiano, ad allenare quelle competenze così tanto cercate nei nuovi scenari del mercato del lavoro.

Anch’io sono a casa. Continuo a far bene il mio lavoro, mi piace, mi diverto, mi realizzo. Ho una stanza tutta per me. Coltivo con passione le mie reti. In questo mio spazio privato di autorealizzazione aleggia però, silente, un senso di ingiustizia. Lo percepisco nell’aria, incomincia a farsi sentire. Più sono distante dai luoghi fisici del suo esercizio, più incomincio a percepire la sua invadente presenza. Maschile.

Più scrivo, più mi guardo dentro, rifletto, soppeso le parole e più si fa sostanza: il potere, la sua arroganza, la mia incapacità interpretativa dei codici simbolici, il mio distacco da ciò che percepisco come noioso e poco stimolante ma esiste, agisce ti schiaccia, anche se tu vorresti chiudere gli occhi e guardare semplicemente dall’altra parte.

Sono una donna che ha una relazione positiva con il proprio lavoro ma le discriminazioni, i volti tristi, le spalle curve, le meschinità le vedo.

Sono una donna che ha una relazione positiva con il proprio lavoro ma, se è vero che il piacere è un’esperienza privata, personale, perché non trasformarlo in una rivendicazione collettiva?

Sono una donna che ha una relazione positiva con il proprio lavoro, un po’ meno con questo Sistema.

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Mara Ghidorzi esperta in politiche di genere, valorizzazione delle professionalità e strumenti di conciliazione vita- lavoro, è attualmente Responsabile dell’Ufficio Politiche di Genere presso l’Agenzia Metropolitana per la Formazione, l’Orientamento e il Lavoro di Milano.