Un mese fa, a Basilicagoiano, frazione a pochi chilometri da Parma, un cittadino tunisino sui trent’anni, Mohamed Habassi, veniva ucciso nel modo più atroce – con sevizie, mutilazioni, torture – da quello che, solo per l’analogia nel modus operandi, ho definito una sorta di squadrone della morte: concordato e capeggiato, dicono finora le indagini, da due “insospettabili” benestanti parmigiani ultraquarantenni, rei confessi, a loro volta spalleggiati da quattro operai romeni, reclutati per il raid mortale.

Numerosi sono i nodi che l’inchiesta giudiziaria ha da sciogliere: non da ultimo quello del lungo calvario inflitto alla vittima senza che alcuno intervenisse, nonostante le grida laceranti; se non i carabinieri, ma tardivamente, quando la morte era ormai sopraggiunta dopo una non breve agonia.

Oltre lo schema anomalo

Tuttavia, uno dei misteri di questo caso resta il silenzio glaciale dei media nazionali: solo parzialmente spiegabile, come ho già scritto, con lo schema “anomalo” del delitto, che vede “l’extracomunitario” nel ruolo della vittima e due cittadini italiani nel ruolo dei principali carnefici. Eppure l’oggettiva ferocia dell’assassinio avrebbe dovuto farne una notizia degna di qualche attenzione su scala nazionale.

La notizia ha potuto varcare i confini della cronaca locale solo il 25 maggio scorso, allorché questo giornale ha voluto ospitare l’articolo a mia firma: subito ripreso da MicroMega-online, comparso, anche in francese, in vari siti e blog, ampiamente condiviso dai social network. Poco dopo, a occuparsi del caso sono state Radio 3, con Tutta la città ne parla e Radio Radicale. Infine, ilfattoquotidiano.it gli ha dedicato il titolo di apertura dell’edizione del 1° giugno scorso, sia pur con ventuno giorni di ritardo.

Qualche reazione c’è stata

Sul versante politico-sociale, qualche reazione c’è stata, a Parma, sebbene tardiva e inadeguata alla gravità dell’accaduto. Lo scorso 28 maggio, nel corteo promosso dal Coordinamento antifascista e antirazzista (nato per iniziativa dell’Anpi), un gruppo di cittadini tunisini sfilava con uno striscione che chiedeva giustizia e verità per Mohamed. Nel contempo, il collettivo «Rete Diritti in Casa» pubblicava e diffondeva un comunicato dal titolo «Morire di sfratto: quando il valore di una vita vale meno di un affitto».

Nonostante questi sussulti di attenzione, ciò che è prevalso, e prevale ancora, è la tendenza a ignorare, minimizzare o banalizzare un caso che pure rappresenta uno degli omicidi più feroci che siano mai stati concepiti e compiuti, in Italia, da persone ritenute insospettabili e ben integrate nella società. Perfino à la page, si potrebbe dire dei due rei confessi, Luca Del Vasto e Alessio Alberici: il primo, il vero ideatore, è titolare del ben noto Buddha Bar di Sala Baganza e il secondo è grafico e fumettista di una certa fama locale.

 

10STORIE HABASSI PARMA
La scientifica sul luogo del delitto

 

Ricordo che il movente addotto risiederebbe nel fatto che la vittima non pagasse la pigione del piccolo appartamento in cui abitava, di proprietà della compagna del primo. Che questo sia oppure no il vero o il solo movente (cosa di cui c’è ragione di dubitare), il fatto stesso che i due carnefici lo abbiano pensato come credibile e commisurato a un’esecuzione così feroce rivela la loro miseria morale e una percezione distorta, se non delirante, della realtà.

Ma forse i due non sono che gli interpreti, sia pur estremi, di quel senso comune degradato, costituito da razzismo, cinismo, prevaricazione, individualismo proprietario, inconsapevolezza del male, che percorre la nostra società. E che favorisce la negazione dell’umanità dell’altro, ancor più se l’altro è una non-persona per la stessa società.

Senso comune degradato

È il medesimo senso comune che trapela – sia pur su scala minore e virtuale – dalla gran mole di commenti al pezzo de ilfattoquotidiano.it già citato: qui il tema largamente dominante (per fortuna, non l’unico) è «la latitanza delle istituzioni» che non tutelano «il diritto dei cittadini alla proprietà privata». «La proprietà è sacra, eccome», chiosa qualcuno senza un filo d’ironia. Un tale, che si nasconde dietro uno pseudonimo macabro, si dice dispiaciuto per la morte della compagna italiana di Habassi, «ma non per quella di quest’individuo che non pagava l’affitto». Un altro si chiede: «Cosa ci faceva in Italia uno spacciatore di droga tunisino, che occupava abusivamente una casa senza versare un centesimo al proprietario?». Una commentatrice ne trae la morale: «Non conviene affittare, non sai mai chi ti metti dentro», signora mia. C’è perfino chi si spinge fino al classico: «La vittima se l’è cercata». E chi conclude in modo che vorrebbe essere icastico: «Nessun innocente, nessuno stinco di santo, nessuna vittima, manco il morto».

Banalità del male

Come si vede, l’universo culturale e morale dei due assassini (e forse anche dei quattro operai romeni) è in sintonia col senso comune che si esprime in questi commenti a dir poco cinici. Che neppure l’efferatezza estrema dell’omicidio – il quale, ricordiamo, ha reso doppiamente orfano un bambino – valga a suscitare emozione, pietas, orrore, sgomento o almeno inquietudine è indizio di quanto il male si sia banalizzato. Non c’è bisogno di scomodare Hannah Arendt per dedurre che, in fondo, la “normalità” dei commenti indignati per le rate di affitto non pagate dalla vittima (anzi, dalla non-persona divenuta perciò non-vittima) è in qualche misura simmetrica all’”anormalità” del feroce assassinio.

Nel comunicato-volantino della «Rete Diritti in Casa» si stigmatizza la «mancanza di pudore di chi prova a giustificare, di chi cerca attenuanti, di chi getta fango su chi ormai non si potrà più difendere». Ed è vero che, anche tra i solerti giornalisti cui spetta il merito di aver garantito almeno l’informazione su scala locale, è prevalsa e prevale, con qualche eccezione, la tendenza a mettere in cattiva luce la vittima, piuttosto che indagare sul lato oscuro dei due principali attori dell’orrendo supplizio.

Insospettabili precedenti

Sebbene qualificati come insospettabili, i due avrebbero «piccoli precedenti per spaccio», secondo parmapress24.it e qualche altra fonte minore. E non solo. Sarebbe bastata una rapida ricerca in rete per scoprire che i due amici inseparabili, anche nell’orrore, nel 2004 parteciparono insieme a un corso di «esplosivistica di base», ottenendone la licenza di «fochino», cioè di maneggiatore di esplosivi. Si ammetterà che non è consueto che dei cittadini non destinati a fare i minatori si specializzino in esplosivi.

Certo, quest’ultimo è solo un dettaglio, sicuramente secondario. E tuttavia esso ci rivela come su questo delitto estremo aleggi un’Ombra, per dirla in termini junghiani, rimossa e perciò non sublimata: il lato oscuro della Parma borghese, ma in fondo della nostra intera società, riflettendosi sul piano degli umori e delle condotte individuali, può far sì che l’altro divenga il bersaglio della proiezione del rimosso. Delle volte, come in questo caso, fino al martirio.