La ricognizione dello scorso anno sulle “Parole lievi” di Jorge Luis Borges giunge alla sua definitiva cristallizzazione nell’allestimento di “Beatitudo”, il perno scenico su cui si avviluppano e le questioni cruciali che hanno segnato ed impresso nell’immaginario collettivo la vita artistica dei trent’anni della Compagnia della Fortezza e della sua guida, l’attore e regista Armando Punzo. Tuttavia, non pareva possibile aggiungere un altro capolavoro al filotto di grandi spettacoli quali “Hamlice”, “Mercuzio” e “Santo Genet”, tanto per restare vicini ad un tempo “nostro contemporaneo” e non andare a fare facile retrospettiva, con un passato già pieno di premi e riconoscimenti. Per questo, è come dire piacevole essere stati smentiti anche nella lunga fedeltà che contraddistingue la personale ed esclusiva visione critica della Compagnia nella sua interezza creativa, performativa, organizzativa e nondimeno distributiva. Sebbene il regista napoletano non sia mai stato parco di parole, mai come in questa ricorrenza Punzo ha scritto, detto e conversato con addetti ai lavori (prima del debutto di “Beatitudo” ha raccontato la sua esperienza anche alla Biennale Teatro dedicata all’attore/performer), critici, media e pubblico.

Ed è da credere che tali parole siano le medesime che, perlopiù tenute segrete nei libri, nei tanti taccuini e quaderni d’appunti, costituiscono la base esperienziale del suo rapporto con i detenuti-attori della Compagnia fino al loro apparire e scomparire a lettura ultimata negli spettacoli. Ci sono, dunque, molte “pezze” da attaccare alla complessa unicità di un discorso estetico e, sopratutto, disciplinare che, pur condividendo intenti con altre esperienze non poi così dissimili, resta sostanzialmente isolato nel panorama teatrale nazionale. Una di queste la incolla lo stesso Punzo, durante l’inaugurazione di “Luoghi Comuni Reload”, l’installazione urbana restaurata per il trentennale:”Il nostro tentativo è far fiorire veramente altro, laddove non dovrebbe, come accade nella Fortezza o in questa piazza con Luoghi Comuni. Cerchiamo qualcosa che ci porti a percepire un altro livello di noi stessi, normalmente relegato, a cui non diamo spazio. La sensazione che abbiamo è che le mura che ci circondano, in carcere ma anche in questa piazza, si richiudano su di noi, come a dire: “non ce la farete mai, la realtà vincerà”.

È una battaglia aperta. Questo è il senso generale del lavoro della Compagnia della Fortezza in quel rettangolo che è il cortile del carcere, uno dei tanti che ho frequentato nella mia vita.”. Questa felice sintesi del Punzo – pensiero, pronunciata a braccio e, visto l’uditorio, in modo sottilmente istituzionale, raccoglie a piene mani molti dei suoi ragionamenti, contaminati da slanci poetici, metafore quotidiane ed esistenziali e ricordi, talvolta aneddotici tanto per restare con i piedi a terra, di vita personale (in tal senso si dovrà prima o poi riflettere sull’esperienza del gruppo d’ispirazione grotowskiana L’avventura, da cui “tutto è nato”). Qui, lo sguardo del regista, che non è stato mai retrospettivo, nemmeno nei suoi libri – bilancio (non lo è in “E’ ai vinti che va il suo amore” edito nel venticinquennale della Compagnia, né lo sarà per il prossimo, in attesa di pubblicazione), cerca di inquadrare il futuro: suo e della Fortezza. Ecco schiudersi davanti agli occhi il progetto #trentannidifortezza.

Dunque, se a prima vista il tripartito allestimento (semi “en plein air” nel cortile della casa di reclusione e al “chiuso” al Teatro Persio Flacco di Volterra, con quest’ultimo preso a prova generale della tournée teatrale autunnale e in ultimo con il site-specific di “Le rovine circolari” nel refrigerante della Centrale Geotermica dell’Enel di Larderello), si presti a servir da ingresso nei labirinti poetico-narrativi dell’opera di Borges (il cui percorso si poggia sulla “memoria prodigiosa, nutrita da molteplici esperienze culturali, occidentali e orientali, vigilata e accompagnata da una provocatoria reattività critica”); solo in un secondo momento, ripreso il giusto orientamento sulla bussola critica che tiene mano nella mano e indirizza lo spettatore più smaliziato, sembra valere l’accorgimento che con questo progetto non si celebra solo il trentennale di un modello di teatro, il cosiddetto “teatro in carcere”, ma ci si accorge come ciò lascia il posto a pratiche teatrali che non hanno nulla da invidiare al far teatro al di fuori di modelli, per l’appunto, precostituiti. Sembra bizzarro, pensando all’itinerario estetico intrapreso da Punzo con i suoi spettacoli, sottolineare come La Compagnia della Fortezza sia diventata a tutti gli effetti una compagnia che fa teatro e che non ha bisogno di altra definizione di genere: esponendo, per l’appunto, il suo far teatro a digressioni, parafrasi, sovraesposizioni strumentali, malinconie ed inquietudini di genere, che si ricompattano nel momento in cui e ciò si verifica di continuo, il modello di “teatro in carcere” si dissolve nella messa in scena (in “Beatitudo” come nelle “Rovine circolari” l’intreccio sinestetico di musica, performance, monologo, canto, si monta e smonta in contigui piani alternati, apparentemente senza soluzione di continuità e ciò, va ribadito, innerva tutto il progetto, sostenuto dai collaboratori di sempre di Punzo a cominciare dal compisitore Andrea Salvadori). In questo vi è anche la capacità del suo regista di immaginare come ama dire “l’impossibile”. Cioè l’utopia di creare il primo teatro stabile in carcere. Questo è senza alcun tipo di dubbio e a vista l’orizzonte della Fortezza. Per intanto, una immediata riflessione, spalmata nel lasso di giorni che divide uno spettacolo dall’altro, si affaccia nella giustapposizione dell’allestimento “in carcere” di “Beatitudo” e della versione site-specific “Le rovine circolari”. Per usare un linguaggio cinematografico d’ampio uso, i due allestimenti sono attraversati l’uno da un fermo inquadratura in cui i piani narrativi coincidono con l’entrata in campo dei personaggi, mentre l’altro è dettato dalla collocazione di visione dello spettacolo in formato, vivente, 16:9 “panoramico”, e da un passaggio d’acqua che si allarga da “rettangolo” (i tanti rettangoli esistenziali del regista) a vero e proprio circo acquatico, aumentando così il suo già alto valore simbolico. Tale situazione è agevolata dall’essere in uno dei refrigeratori dismessi della Centrale Geotermica dell’Enel di Larderello (il sito è posto nel cuore della celebre “valle del diavolo” chiamata così per la presenza di soffioni boraciferi già conosciuti ai tempi di Dante che forse vi prese ispirazione per la prima cantica della sua Commedia, ma anche modello di sviluppo urbanistico per Giovanni Michelucci, l’architetto della Chiesa sull’Autostrada, che lì costruì un villaggio operaio che fece scuola). Peraltro ed è cronaca, sempre a Larderello nel 2016 si ebbe la prima della versione teatrale di “Dopo la tempesta”, il tuttoshakespeare realizzato da Armando Punzo – ed oggi è ancor più chiaro l’intendimento del suo autore – in forma aperta nell’ambito del progetto de “La città sospesa” che fu, per come lo si è conosciuto, anche l’estremo capitolo del Volterra Teatro. Si ricorda quest’episodio, richiamato alla memoria in programma dal regista, perché chiarifica la presenza del bambino che gli è ancora una volta accanto. I due non si sono mai lasciati. Il loro camminare insieme stratifica, in un certo senso, sia la distanza emotiva dell’adulto dal bambino, sia la consequenzialità di due opere-mondo come quelle che Shakespeare e Borges hanno lasciato sedimentare sui molteplici terreni dell’invenzione umana. Vieppiù in ciò l’esplicita visione panottica da parte dello spettatore che extraterritorializza l’origine dello spettacolo, universalizzandolo nell’abbraccio finale alla compagnia. Quantunque e al di là del dispositivo scenotecnico messo in atto, richiamato nei referti archeo-industriali del sito, intuiti e fatti realizzare ex-novo da Cinzia De Felice, il messaggio dell’antologia dei personaggi borgesiani agitato da Punzo è chiaro nell’uscita dalla gabbia letteraria autocostruitasi.