I Kinks alla corte di «Arthur». Tra visioni barocche e sorrisi acidi
Tracce/Nel 1969 arrivava nei negozi uno dei lavori più riusciti della band dei fratelli Davies. Un cofanetto, con inediti, lo ha celebrato di recente Nel box set anche il 33 giri «perduto» di Dave Davies. Una delizia per i fan
Tracce/Nel 1969 arrivava nei negozi uno dei lavori più riusciti della band dei fratelli Davies. Un cofanetto, con inediti, lo ha celebrato di recente Nel box set anche il 33 giri «perduto» di Dave Davies. Una delizia per i fan
Tra il 1963 e il 1968, l’onda sonora della British Invasion oltrepassò anche i confini del mercato discografico italiano. Non fu soltanto questione di Beatles e Rolling Stones. In cima o ai piani alti delle nostre classifiche salirono Procol Harum, Animals, Monkees, Yardbirds, Zombies, Manfred Mann… Molte delle loro hit vennero tradotte, spesso stravolgendone il testo, e cantate da singoli artisti o «complessi», come venivano chiamati allora.
TATTICHE E BOLLETTE
Dei Beatles in versione italica si ricordano, ahinoi, Please please me, Fausto Leali, 1963; From Me to You, 1964, che Ricky Gianco ribattezzò Cambia tattica (!). I’m a Believer dei Monkees, 1967, un milione di copie, diventò Sono bugiarda e portò benissimo a Caterina Caselli. Nello stesso anno, A Whiter Shade of Pale passò dai Procol Harum ai Dik Dik, accorciando il titolo in Senza luce, che suonava un po’da guasto elettrico o bolletta non pagata. Sempre nel 1967, tremenda idea, Mick Jagger mise su vinile Con le mie lacrime, cioè As Tears Go by.
Nel gran traffico musicale di quel periodo emerse improvvisamente, era il 1966, il gruppo The Pops, cinque studenti milanesi, tre 45 giri in tutto, di cui uno consentì loro di gustare il sapore del successo. Grazie al lato A, Un uomo rispettabile, vendette infatti decine di migliaia di copie. Un uomo rispettabile era la cover di A Well Respected Man dei Kinks, band britannica rimasta pressoché sconosciuta in Italia, tra le più importanti nella storia del rock. La fermata East Finchley della metro londinese corrisponde al quartiere dove nel 1944 e nel 1948 nascono Roy e Dave Davies, che una quindicina di anni dopo fondano il Ray Davies Quartet. Con loro, voce e chitarra, ci sono Pete Quaife, basso, e John Start, batteria (presto sostituito da Mick Avory). Per breve tempo, nella formazione entrerà Rod Stewart. Mentre scalda i motori tra un concerto e un’audizione, il quartetto decide di cambiare nome in The Ravens, i corvi. E quando firma un contratto con la Pye, fa la scelta definitiva: The Kinks, da kinky, eccentrico, eccessivo. I primi due singoli sono un flop. Ray, è lui a comporre, cambia registro e abbandona gli stilemi classici della British Invasion.
You Really Got Me, agosto ’64, schiera una chitarra dura, ha ritmi tosti e un riff che ammicca con un ghigno. Il brano scala la classifica britannica raggiungendo il primo posto e entra nella top 10 Usa. All Day and All of the Night, a distanza di tre settimane concede quasi il bis. Kinks, album di debutto, si posiziona quarto nella graduatoria inglese. Lo segue Kinda Kinks, preludio al vero cambiamento, annunciato a novembre 1965 da A Well Respected Man. Le sonorità dei Kinks si addolciscono e acquistano atmosfere da music hall, in netta contrapposizione ai testi: satira spietata del sistema sociale, vetriolo sul perbenismo ipocrita della borghesia britannica. Ironica e amara, Sunny Afternoon, nell’estate del ’66 toglie la vetta a Paperback Writer dei Beatles; nel maggio ’67 Waterloo Sunset, altrettanto amara, consacrerà il successo della band. In mezzo, tre ellepi: The Kink Kontroversy, Face to Face, Something Else by The Kinks. Dai due minuti di Village Green prende forma il primo concept album della band, The Kinks Are the Village Green Preservation Society, marzo ’68. Quindici brani raccontano la quotidianità di un villaggio rurale, i legami con le tradizioni, i piaceri di una vita semplice.
ALLE PORTE
Accolto con estremo favore dalla critica in Europa e negli Usa, il disco vende poco più di 100mila copie, salvo divenire poi il long seller della band. La seconda rivoluzione firmata The Kinks è ormai alle porte. Il 10 ottobre 1969 esce Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire), opera rock che non pochi tra gli addetti ai lavori continuano a considerare superiore a Tommy degli Who, pubblicato lo stesso anno. Gli album a seguire, una ventina fino alla scioglimento della band, 1996, scivoleranno nell’ombra, con l’eccezione di Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Misfits, Low Budget. Più che mai benvenuta, dunque, la decisione della Bmg di celebrare il mezzo secolo di Arthur proponendone la versione rimasterizzata in cd o su vinile, con alcune bonus track «d’epoca», e l’inedito The Great Lost Dave Davies Album. Il cofanetto da collezione comprende quattro cd, quattro singoli 7”; un libro con lo script originale, alcune copertine di Bob Lawrie, nuove interviste; foto e memorabilia tra cui una spilla in metallo e smalto. Il doppio cd è in vendita a 14 euro. Ray, su incarico della Granada Tv, aveva scritto con Julian Mitchell la sceneggiatura televisiva di Arthur.
Il cofanetto che celebra l’album Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire)
COLONNA SONORA
Dodici brani ne avrebbero costituito la colonna sonora. Nonostante il periodo difficile, l’abbandono di Peter Quaife e l’insuccesso del lavoro precedente, a maggio i Kinks terminano le registrazioni in studio. Ne approfittano per registrare anche l’album solista di Dave, un progetto nato nel ’67 dopo l’ottimo esito della sua Death of a Clown, rimasto incompiuto. Finirà però nel cassetto, e lo sceneggiato avrà identico destino. A settembre l’emittente ne annuncia il rinvio, a dicembre lo cancella dal palinsesto. Arthur è costretto a camminare da solo e se, inevitabilmente, i risultati commerciali non gli renderanno giustizia, le lodi dei critici saranno unanimi. Secondo la rivista Rolling Stone «…Il risultato supremo dei Kinks e il miglior album britannico del 1969». Melody Maker gli fa eco: «Il momento più bello di Ray Davies… magnificamente britannico fino al midollo». Analoghi giudizi arriveranno da Village Voice e Fusion.
Arthur racconta una delle tantissime storie di emigrazione dall’Inghilterra depressa del dopoguerra. Nello specifico, una storia ispirata a quella di Rose, la sorella di Ray e Dave, la cui partenza per l’Australia con il marito Arthur Henning, ha lasciato nei due ragazzi una ferita profonda. Emarginazione, enormi disparità economiche, le intollerabili contraddizioni della società britannica, vengono messe ancor più a nudo, rese ancor più violente, dal contrasto tra la raffinata bellezza della musica (alcuni l’hanno definita «pop barocco») e le narrazioni crude dei testi. Poesia, sorrisi acidi, accenti provocatori, atmosfere fintamente scanzonate, sogni per forza più grandi della realtà sono la tessitura di un capolavoro che tale rimane dopo cinquant’anni. Senza che il tempo riesca a mostrare neppure un piccolo segno di usura.
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