La risposta alla spada di Damocle climatica passa anche per l’attenzione alle foreste e agli alberi, i quali assorbono a livello mondiale 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, come precisa il rapporto 2018 Stato delle foreste e dei boschi del mondo redatto dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura). Foreste e boschi, poi, concorrono significativamente al soddisfacimento degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile sanciti dalle Nazioni unite. L’aiuto al ciclo dell’acqua, la resistenza al degrado delle terre, l’apporto alimentare (offerto dai prodotti agricoli non lignei – 76 milioni di tonnellate di cibi silvestri, al 95% di origine vegetale. Vi attingono 50 milioni di persone nella sola India). E al tempo stesso la deforestazione è la seconda causa dei cambiamenti climatici, con quasi il 20% delle emissioni di gas serra totali. Dunque, l’onore e l’onere di agire come popoli delle foreste – non solo fruitori ma difensori – dovrebbe spettare a tutti i cittadini del mondo; è invece confinato a ristretti gruppi di popolazione autoctone e di militanti.

Ne abbiamo parlato con Simone Lovera, direttrice della Global Forest Coalition (Gfc), coordinamento di 94 organizzazioni formate da popoli indigeni e da gruppi ambientalisti di base, presenti in 62 diversi paesi – solo 12 in Europa occidentale e 2 in Nord America.

Qual è il vostro approccio alla questione globale delle foreste?

Ci preoccupano le tendenze neocoloniali, imperialiste nella politica forestale internazionale, dominata da gruppi del Nord. A volte partono con progetti rovinosi, poi salutano, se ne vanno e lasciano i cocci. Le politiche di tutela e rigenerazione dovrebbero partire dalle comunità locali e dai popoli indigeni, ed essere efficienti, socialmente giuste, capaci di affrontare davvero le cause principali della deforestazione.

Quali sono queste cause?

Attualmente l’industria zootecnica (che richiede grandi estensioni per i pascoli e per produrre i mangimi, in primis la soia), soprattutto in America latina, l’olio di palma per uso energetico e alimentare, il prelievo di cellulosa. L’Unione europea per fortuna ha deciso di dire basta all’olio di palma nei biocombustibili entro il 2030, e gli investitori magari saranno sin d’ora disincentivati. Ma ad esempio in Indonesia il biodiesel per i trasporti è massicciamente sostenuto. Il luogo comune lo dice neutro quanto a emissioni, ma non è vero perché per produrlo si deforesta. E questo è supernegativo. Non si può ingannare il clima.

I vari killer delle foreste sono spesso incentivati economicamente.

Sì. Basterebbe eliminare tanti sussidi perversi. Sono tutti lì a chiedere «dove trovare denaro per le foreste?» Eppure, giusto una cifra: il Brasile spende ogni anno l’equivalente di circa 24 miliardi di dollari per sussidiare in vario modo produzioni che causano deforestazione. Per esempio carne bovina e soia. Uno spreco di denaro per far danni. Per un confronto, tutti i donatori messi insieme dedicano alla conservazione della foresta brasiliana meno di un miliardo. Ciò detto, qualche miglioramento c’è qui e là, in termini di riduzione dei sussidi.

Le politiche forestali da parte dei vari governi sono molto diverse?

A volte funzionari e dipartimenti sensibili si ritagliano uno spazio perfino in amministrazioni di destra come, in America Latina, Colombia, Paraguay, Brasile, Argentina… Ma dobbiamo considerare un fatto: i governi sono sempre più spinti a essere dipendenti dal denaro dei privati e questo partenariato rafforza gli interessi commerciali ignorando sempre più la gente. In Colombia nei primi mesi del 2018 sono stati uccisi 86 leader comunitari. Fra questi alcuni nostri riferimenti.

Si calcola nel mondo una superficie forestale di circa 4 miliardi di ettari e si dice che la perdita netta di superficie è meno forte che in passato. Ma di quali superfici parliamo? Un vostro adesivo recita: «Le piantagioni non sono foreste».

Il punto è che una foresta è un ecosistema, concetto definito dalla Convenzione Onu sulla biodiversità. Un ecosistema dominato dagli alberi è una foresta. Purtroppo questa definizione è negletta e così si fa confusione fra foresta naturale e piantagioni monocolturali, che in realtà sono una forma di agricoltura, niente a che vedere con un ecosistema complesso e pieno di biodiversità. Insomma, magari azzeri una foresta tagliandola, poi pianti alberi da reddito e li chiami foresta. Come Gfc diamo un premio, il Treetanic Award, a ditte e boss dediti a grandi piantagioni le quali pretendono di essere amiche del clima assorbendo anidride carbonica. Sentiamo parlare di piantagioni di olio di palma sostenitibili, di soia sostenibile…Ma la sostenibilità è anche una questione di quantità. Non ci sono terre infinite su questo pianeta! Ogni ettaro può essere una foresta oppure altro. L’unica cosa di cui le foreste hanno assoltamente bisogno è il terreno. Poi crescono o ricrescono da sole. Si calcola che in Brasile il 70% delle terre siano «equipaggiate» per una ricrescita naturale… Lascia loro il territorio e non occorrerà nemmeno denaro. E’ possibile ridare terra alle foreste. E poi usarne i prodotti in modo saggio. Questa è la buona economia.

Ecco, come possiamo avere tutto: la maggiore estensione possibile di foreste, la sicurezza alimentare, la buona alimentazione, il lavoro?

I modelli di produzione e consumo sono un fattore cruciale nella ricerca di questo equilibrio. Pensiamo all’alimentazione. Per produrre un tot di proteine sotto forma di carne e prodotti caseari occorrono superfici e altre risorse in misura molto maggiore rispetto alla stessa quantità di proteine vegetali. Pensiamo anche alla quantità di lavoro per ettaro. Soia e pascoli ne richiedono pochissimo… e la loro diffusione ha provocato lo spopolamento delle relative aree. Sono partiti tutti, fra inurbamento e migrazioni, le quali non sono sempre la cosa migliore. Per il paese d’origine intendo.