Tre giganti fanno di Karamazovi di Petr Zelenka (premio Fipresci a Karlovy Vary e canddato all’Oscar come miglior film straniero nel 2008) un grande film: il romanzo di Dostoevskij, il testo drammaturgico di Evald Schorm, le acciaierie di Nova Huta. Nasce a Praga, coinvolge totalmente la Polonia (non solo perché è recitato in polacco) e si rivolge agli spettatori che abbiano abbastanza memoria per restare totalmente affascinati. Non come quell’unico nipote di Dostoevskij evocato all’inizio del film, scovato in Russia e invitato a un convegno sul celebre parente di cui non sa nulla, attratto dalla vaga possibilità di ricavarne una Mercedes Benz. Già questo piccolo tocco contiene il marchio di fabbrica del cinema ceco dei bei tempi, uno scherzo, uno sberleffo che abbassa i toni su un soggetto che potrebbe deflagrare in ogni direzione dell’essere umano.

Ma qui interviene il secondo gigante, Evald Schorm «la coscienza» della nová vlná, regista del celebre Coraggio per ogni giorno (’64) subito bloccato dalla censura, dove il protagonista compie una sorta di percorso individuale di destalinizzazione. Parlerà poi dell’impossibilità per i «controllori» di comprendere il lavoro dell’artista, sviscererà i problemi legati alla libertà individuale, prende spunto dalla vita di outsider di Cristo che si contrappone alle istituzioni, interpreta l’ospite che non accetta compromessi abbandonando il lussuoso banchetto in La festa e gli invitati di Jan Nemec (’66). Tutta una serie di scelte che lo porteranno fino alla cancellazione dall’elenco dei cineasti, e a dedicarsi solo al teatro fino alla morte avvenuta nell’88. Zelenka utilizza il suo testo con tutti i sottintesi legati al suo nome. E fatto non secondario, è recitano non in russo ma in polacco da attori cechi, una tipica compagnia praghese che non prende certo sul serio né testo né situazioni, quando sono fuori dal palco.

Quando entrano nel cuore del terzo elemento chiave, le acciaierie di Nova Huta dove si è voluta montare la pièce per una programmazione d’avanguardia, continuano a scherzarci su come se non sapessero di che si tratta, proprio farebbe per lo più il pubblico occidentale. Entriamo nella fabbrica dismessa, nei capannoni semiabbandonati, venduti a un milionario indiano, di cui solo alcuni reparti funzionano, di cui si avverte la presenza operaia per le foto osé attaccate al muro insieme ai ritratti di Wojtila. Entriamo nel simbolo delle lotte operaie, della vittoria di Walesa, dei documentari e di Wajda ai cancelli della fabbrica.

I quattro o cinque attori che cialtroneggiavano in ceco sul pullman da Praga a Danzica subiscono ora una clamorosa trasformazione e giganteggiano nelle parti di Fëdor Pavlovic (Ivan Trojan), di Alyosha (Martin Mysicka), del primogenito Mitja (David Novotny), di Ivan (Igor Chmela), del servo Smerdjakov (Hradek Holub che con alcuni maestri della nová vlná ha fatto in tempo a lavorare: Jires, Kachyna) grandissime prove di recitazione (e non mancano gli esercizi scioglilingua per padroneggiare l’ostica lingua). Possono dialogare così sull’esistenza di Dio – in polacco viene meglio che in ceco – intrecciare la violenza dei rapporti, dalle frasi sferzanti a quelle più letali, mettendo a nudo i risvolti ributtanti dell’essere umano e i picchi della letteratura. Una sessione di prove dove si intrecciano nel fuori palco arrangiato alla meglio le vicende personali degli attori e soprattutto l’attenzione di un operaio polacco che in qualche modo oscuro sente di essere coinvolto in quello che sta vedendo. Un magnifico intreccio di dramma, recitazione, storia e sangue da parte di un regista (figlio d’arte, il padre attore, la madre drammaturga) nato nel ’67, appartenente alla nuova generazione che non ha dimenticato quella grande stagione di cinema del suo paese, la distilla e ci offre uno spettacolo possente.