Sono stati liberati nella serata di martedì 27 luglio oltre 150 ostaggi dopo tre giorni di scontri tra i militari della Repubblica democratica del Congo (Rdc) e le Forze democratiche alleate (Adf) nel nord-est del paese con sette soldati e 15 miliziani jihadisti morti nei combattimenti. «Gli ostaggi erano in pessime condizioni senza cibo, acqua e medicine da diversi giorni – ha detto il governatore militare della regione Johnny Luboya all’Afp – e venivano usati dai ribelli dell’Adf come scudi umani contro le nostre operazioni militari».

I COMBATTIMENTI di questi giorni si aggiungono ai numerosi attacchi dell’ultimo mese contro la popolazione civile che hanno causato almeno un centinaio di morti e, secondo il governo centrale di Kinshasa, sarebbero tutti opera dell’Adf, il più mortale dei circa 122 gruppi armati stimati nella Rdc orientale.

Una situazione di generale insicurezza per la popolazione locale delle regioni di Kivu che ha portato alla morte, lo scorso febbraio, dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, uccisi in un agguato da sette uomini armati.

MENTRE IL GOVERNO centrale ha da subito escluso che quell’attacco fosse di matrice islamista, accusando le Forze democratiche di Liberazione del Ruanda (Fdlr) – che hanno subito «smentito ogni loro coinvolgimento» –, restano ancora forti dubbi riguardo ai reali esecutori dell’agguato, anche perché i miliziani dell’Adf «non rivendicano mai direttamente le loro azioni».

L’Adf, composto principalmente dai ribelli musulmani ugandesi che usavano le regioni orientali di Kivu come basi operative per i loro attacchi contro l’Uganda, si è definitivamente stabilizzato in queste regioni ricche di minerali dalla metà degli anni ’90. Dall’aprile 2019 alcuni attentati dell’Adf sono stati rivendicati dallo Stato Islamico – attraverso i suoi consueti canali sui social –, che designa il gruppo come sua «Provincia dell’Africa centrale» (Iscap). Dallo scorso marzo gli Stati uniti hanno inserito l’Adf nella lista delle «organizzazioni terroristiche affiliate all’Isis».

IL KIVU SECURITY TRACKER (Kst), rispettato osservatore della violenza nella Rdc orientale con sede negli Usa, incolpa l’Adf di aver causato dal 2017 oltre 2mila morti nella sola area di Beni. Così la Rdc, il più grande paese dell’Africa subsahariana, oltre alle centinaia di gruppi armati nati sulle ceneri delle due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003), si trova alle prese con un nemico che da alcuni anni terrorizza tutte le sue regioni orientali e che ha creato legami con gli altri network jihadisti del continente: dal Sahel alla Somalia, dalla Nigeria al Mozambico, rendendo l’Africa l’epicentro del jihadismo internazionale.

«Una nuova internazionale del jihadismo – spiega Pierre Boisselet, coordinatore di Kst – costituita da ugandesi, ruandesi, tanzaniani, kenioti, somali e più recentemente mozambicani, con compiti ben definiti: i somali insegnano agli adolescenti le tecniche per fabbricare bombe artigianali, tanzaniani e ugandesi si occupano dell’addestramento militare e dell’insegnamento del Corano».

A POCO SEMBRA SERVIRE la presenza dei 15mila caschi blu della missione Onu Monusco, istituita nel 2010 proprio con l’obiettivo di «proteggere i civili e consolidare la pace nella Rdc». Vista la gravità della situazione lo scorso maggio il presidente, Felix Tshisekedi, ha proclamato lo «stato d’assedio nel Nord Kivu e nella vicina provincia di Ituri», nel tentativo di frenare la crescente insicurezza e intensificare la lotta contro i gruppi armati.

«Si può pensare che l’annuncio dello stato d’assedio abbia causato l’effetto opposto con l’Adf che ha aumentato gli attacchi contro i villaggi – conclude Boisselet – Strategia che preoccupa: questa situazione crea carestia e insicurezza alimentare con migliaia di civili in fuga».