La strada che risale la Valsavaranche, nel Parco nazionale del Gran Paradiso, termina a Pont, poche case in legno e pietra costruite intorno un grande piazzale. Ho appuntamento con una squadra di guardaparco addetti al monitoraggio dei ghiacciai di questa area protetta. Valerio Bertoglio, Demis Massoni, Piero Bocco e Alberto Rossotto che in questa occasione lavorano insieme, ma normalmente sono assegnati in altre valli del Parco; Valle Orco, Valle di Cogne e Val di Rhêmes. Demis è l’unico in servizio tutto l’anno in Valsavaranche.

Il programma prevede una approfondita verifica sull’ampiezza e spessore del ghiacciaio del Grand Etret. Per il Moncorvè, Monciair e il Gran Paradiso sarà invece effettuata la sola misurazione per il calcolo dell’arretramento annuale del fronte.

Sono le sei del mattino e la temperatura, qui a 1952 metri, è vicina allo zero. Sulle creste della Valsavaranche comincia a far chiaro quando iniziamo a percorrere un sentiero che, in circa due ore, conduce alla base dell’Etret. La lenta e silenziosa salita permette allo sguardo di percepire il colore e le sfumature di questo integro ambiente alpino, tra le cui valli è nato, nel 1922, il primo Parco Nazionale italiano.

Abbiamo passato quota 2200 metri. L’abete rosso Picea abies e i prati coperti dal rododendro Rhododendron ferrugineum hanno lasciato spazio a un aspro ambiente roccioso e con scarsa vegetazione. Valerio, un Master in Glaciologia in tasca e trent’anni di vita da guardaparco nello zaino, sfila dal suo taccuino una foto dei primi anni del ‘900 del Gran Etret. «Lo vedi? Cent’anni fa in questo punto avremmo già incontrato il ghiacciaio. Ma ora da qui non lo vediamo nemmeno» mi dice.

«Il Grand Etret è uno dei ghiacciai più importanti del Gran Paradiso e lo monitoriamo annualmente dal 2005. Da allora ha perso più di 1/3 della sua massa e quest’anno, con le scarse nevicate e l’estate così calda, ci aspettiamo un grave peggioramento» afferma scuotendo la testa.

Tra i compiti istituzionali dei guardaparco del Gran Paradiso c’è anche il monitoraggio dei ghiacciai dell’area protetta. Altrove, in Italia, sono l’Università di Milano, il Cnr e l’Istituto glaciologico italiano a occuparsi da più di mezzo secolo dello studio dei ghiacciai dell’arco alpino. Alla fine degli anni ’60 è stato pubblicato il primo catasto nazionale dei ghiacciai, aggiornato per la terza volta nel 2017.

Il risultato dei tre censimenti ha sempre confermato il trend negativo per tutti i ghiacciai. Si è passati da 838 ghiacciai e una superfice di 609 kmq nel 1958, a 903 ghiacciai con una superfice totale di 368 kmq. Il loro aumento è solamente dovuto alla loro frammentazione in porzioni più piccole. Questo comporta la pericolosa accelerazione del fenomeno di riduzione dei corpi glaciali, in quanto una minore massa di ghiaccio ha una ridotta capacità di assorbire calore senza sciogliersi.

A QUOTA 2300 METRI siamo arrivati alla morena del Grand Etret. Qui non c’è sentiero. Bisogna progredire su un disordinato accumulo di sedimento roccioso e una distesa di rocce dalle forme variabili, formate dal movimento del ghiacciaio sullo strato di roccia sottostante. Alcuni grandi massi, che interrompono il mare di sfasciume geologico, danno ancor più l’idea di quanto il ghiacciaio, in tempi passati, si fosse spinto a quote inferiori. Adesso il Grand Etret, più che vederlo, si inizia a percepire. Il gorgogliare dell’acqua che origina dalle sue viscere ad ogni passo si fa più forte. Confrontando l’inizio della morena con la massa di ghiaccio attaccato caparbiamente alle alte pendici della valle, capisco che il ghiacciaio ha ora una superficie meno della metà della sua massima estensione storica. E quell’acqua che fuoriesce gorgogliante è come un’emorragia che lo svuota dalle sue energie e lo porta inesorabilmente alla morte.
Un grande masso con dei numeri riportati a vernice ci indica il punto da cui effettuare la misura del fronte del ghiacciaio. Demis, il più giovane del gruppo, guarda attraverso un telemetro laser la linea di ghiaccio avanti a noi e detta la sua misura «150 metri». Valerio esegue un veloce raffronto con i dati del 2016 e dice, quasi sussurando «Sono 20 metri, il fronte è arretrato di altri 20 metri. Non comincia davvero bene».
Lungo il corpo del Grand Etret ci sono sette aste graduate per misurare lo scioglimento in profondità del ghiacciaio. Per raggiungerle devo indossare dei ramponi e impugnare una piccozza. I guardaparco, per maggiore sicurezza, hanno anche corde e chiodi elicoidali da ghiaccio. Costeggiamo la bocca del ghiacciaio da cui scorre un torrente grigio e turbolento. «Questa acqua arriva dallo scioglimento del ghiaccio formato di più di un secolo fa» afferma Alberto, «e da allora non se ne è formato più di nuovo. È un conto in perdita da decenni».

L’ACQUA CHE SCENDE DAI GHIACCIAI è essenziale per i cicli produttivi umani e naturali delle sottostanti valli. Durante la stagione estiva, in carenza di acqua piovana, un ghiacciaio fornisce un costante apporto di acqua dovuto al suo normale scioglimento e dalla neve depositata sulla sua superfice. Se dovesse mancare l’apporto di questa acqua durante l’estate per la scomparsa di un ghiacciaio, l’unico acqua disponibile per le valli sarebbe la piovana. E con estati sempre più secche e torride l’intero ecosistema naturale sarebbe compromesso. «Il ghiacciaio è il nostro salvavita estivo in fatto di acqua» dice Valerio, «Finchè ci sarà».

Si procede in fila. Nei punti di maggiore pendenza le punte dei ramponi stridono a contatto con il ghiaccio duro come roccia. Non c’è più neve a coprirlo. Raggiungiamo le prime tre paline graduate al centro del ghiacciaio, che in questo mare bianco e accecante non sono facili da individuare a vista. La superficie del Grand Etret è attraversata in alcuni punti da crepacci, fratture superficiali create dal suo lento movimento. Fessure di un blu intenso in cui si riesce a vedere la profonda anima di un ghiacciaio. Denis mi fa notare un grande masso isolato che interrompe la continuità del ghiacciaio. «L’anno scorso qui era tutto coperto e si passava sopra quel masso. Così a occhio mancano almeno tre metri di ghiaccio». La conferma arriva dal calcolo sul ghiaccio perso intorno le tre aste graduate. Il centro del Grand Etret ha perso in media due metri di spessore.

IL GRAND ETRET SI SVILUPPA attualmente tra i 2700 e i 3100 metri d’altitudine. La parte superiore di un ghiacciaio, chiamata zona di accumulo, è dove generalmente lo strato di neve invernale rimane persistente tutto l’anno. Qui la neve subisce una serie di importanti cambiamenti di stato, che per compressione, scioglimento e nuova solidificazione, si trasforma in ghiaccio. Trascorrono secoli prima che un fiocco di neve, trasformato ed entrato nel corpo del ghiacciaio, si sciolga nuovamente per scorrere in un ruscello a valle.

Arrivati a quota 3000 metri non ci sono però accumuli di neve. Il ghiacciaio è completamente nudo ed espone la sua epidermide direttamente ai raggi solari. E anche quassù si è perso spessore. Demis si consulta con Valerio nei pressi dell’ultima palina graduata, la più alta di quota, e dice «Capo, per quando vado in pensione il Grand Etret sarà scomparso. Ancora trent’anni e quassù non ci sarà ghiaccio per una granita». Vorrebbe sembrare una battuta spiritosa, ma dall’espressione del guardaparco è evidente la tristezza che prova per questo gigante millenario, che lentamente si scioglie sotto i suoi piedi.
Sono le due del pomeriggio quando cominciamo a scendere. Delle nuvole si addensano sulle creste della Valsavaranche e bisogna affrettare il passo per arrivare prima del buio al rifugio dove i guardaparco passeranno la notte.

IL VITTORIO EMANUELE II, storico rifugio costruito nel 1884 a 2735 m. sul livello del mare, è una sosta obbligata per tutti gli alpinisti diretti alla cima del Gran Paradiso. Paolo Pellissier è la guida alpina che lo gestisce. Testimone dei mutamenti avvenuti tra queste montagne negli ultimi cinquant’anni, mi racconta di quando i ghiacciai di Montcorvè e Monciair arrivavano quasi al rifugio.

«Guarda questa fotografia», dice mostrandomi una vecchia immagine del 1960. «Adesso è rimasto solo il ricordo di quel che c’era lassù. Il continuo arretramento del ghiaccio è anche causa di molte frane e distacco di massi dalle pareti che si scoprono dal ghiaccio. Anche la via normale per la vetta del Gran Paradiso da quest’anno l’abbiamo segnata su un nuovo tracciato. Qui tutto sta cambiando da quando i ghiacciai arretrano. Ed è percepibile di stagione in stagione». Comincia a nevicare e il sole è già sceso oltre le creste della valle. Ho ancora 700 metri di dislivello da scendere. Saluto Demis, Valerio, Alberto e Piero; domani devono terminate il monitoraggio ancora su tre ghiacciai.

Il sentiero che mi riporta a Pont è un susseguirsi di tornanti a zig zag che sembra dare ritmo al passo. Da lontano il ghiacciaio del Grand Etret non si distingue più dall’oscurità del cielo. «È buio sul ghiacciaio», penso. Mi torna in mente il titolo del libro di Hermann Buhl, l’alpinista austriaco che nel 1953 ha conquistato in solitaria la cima del Nanga Parbat, uno degli ottomila più pericolosi della regione himalayana. Descrive la dimensione che alcuni pensieri possono prendere in montagna. Compagni reali che si materializzano in alcune salite, le più dure, le più interiori, in cui è necessario allineare passo e respiro con il battito del cuore. E quando avviene, si raggiunge un intimo misticismo con gli elementi naturali della montagna. La terra dei ghiacciai e dei loro guardiani è un luogo in cui tutto questo ancora accade.