La quiete dopo la tempesta ha il volto di Luigi Di Maio. Nel primo pomeriggio del giorno che segue il tonfo elettorale, il vicepremier grillino si presenta in conferenza stampa al ministero dello sviluppo economico. Si sforza di mostrarsi sereno, quasi sorridente. Ammette senza giri di parole la sconfitta, dice che il crollo gli servirà da lezione ma sostanzialmente conferma lo schema che ha prodotto il declino elettorale del Movimento 5 Stelle: «C’è un contratto di governo da rispettare, mettiamoci a lavorare per ricostruire un rapporto coi cittadini», dice in sostanza Di Maio.
La risposta rischia di apparire debole proprio perché descrive un M5S senza vie d’uscita, costretto all’immobilismo, vincolato al governo gialloverde e al tempo stesso impossibilitato a mettere in discussione gli attuali vertici. «Nessuno, tantomeno Grillo e Casaleggio, hanno chiesto le mie dimissioni», mette le mani avanti Di Maio blindando la sua posizione.

La riunione congiunta dei gruppi parlamentari convocata per ieri sera viene disdetta nel giro di qualche ora. Ufficialmente perché non tutti gli eletti, reduci dalla campagna elettorale, avrebbero avuto il tempo di raggiungere Roma. Nei fatti nei territori c’è delusione e soprattutto molta confusione, anche se i messaggi che trapelano vanno tutti nella direzione del consenso al vertice. Di Maio teme che qualcosa covi sotto la cenere, cerca di prendere le contromisure e riunisce una specie di gabinetto d’emergenza. Ricompare persino Alessandro Di Battista, assieme ad alcuni fedelissimi: il sottosegretario Stefano Buffagni, i capigruppo di camera e senato Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli e Gianluigi Paragone. Di Battista non si sottrae ai microfoni, ed entrando al ministero per varcare la soglia che nei fatti segna il suo reintegro e il ritorno nell’agone politico, dichiara: «Ci riuniamo per capire cosa fare: il punto non è con chi si fanno le cose ma come si fanno» dice sibillino a chi gli chiede se è in discussione la leadership di Luigi Di Maio. Però poi assicura: «Uniti abbiamo vinto, uniti abbiamo perso».

Per il sottosegretario agli interni Carlo Sibilia il governo non è in discussione, visto che «questo governo supera il 50% dei consensi e altre strade non sono percorribili. Registriamo, miglioriamo, ma il faro politico del nostro paese resta il contratto». E il sorpasso del Pd? «È soltanto voto di protesta», chiosa Sibilia dimostrando di avere imparato il lessico del politico di governo.

L’unico fattore oggetto di verifica è quello che in realtà è in discussione da mesi, ben prima della crisi: l’organizzazione interna. «Dobbiamo ripartire dai territori con una fase di ascolto e riorganizzazione – dice il ministro dei rapporti col parlamento Riccardo Fraccaro – Luigi Di Maio, come sempre, saprà guidare saldamente questa fase di rilancio». Resta il nodo della collocazione europea: dove siederanno i sedici eletti grillini a Bruxelles? Soltanto una delle liste alleate ha superato lo sbarramento ed eletto un parlamentare europeo. Il flop delle liste sorelle impone che il lavoro diplomatico si riavvii, con una certa celerità e pure con una certa disinvoltura visto che gli eletti sono attesi a Bruxelles già tra una settimana. I fatti impongono di contraddire l’impegno preso dal leader in campagna elettorale circa l’identità «né di destra né di sinistra» della compagine con la quale portare avanti la battaglia europea. Con ogni evidenza, inoltre, la scelta finirà per cozzare con l’alleanza per il governo nazionale con la Lega. Proprio per non creare ulteriore imbarazzi, i vertici starebbero puntando ad inserire il M5S in un gruppo dove non figurino altri partiti italiani. A questo punto la rosa dei papabili si restringe ai liberali di Alde e al gruppo dei Verdi. Entrambi presentano due controindicazioni non da poco: stanno seriamente considerando la possibilità di entrare in maggioranza con popolari e socialisti e soprattutto in passato hanno respinto le offerte di alleanza dei grillini.