America first, certo. Ma la graduatoria delle noie diplomatiche, per la Cina, comprende anche qualche «vicino» di casa di Asia e Pacifico.

La pandemia da coronavirus ha rilanciato la Via della Seta in Medio Oriente e in diversi stati del sudest, mentre la cooperazione sanitaria ha dato ulteriore impulso alla relazione con la Corea del Sud.

MA ALTRI IMPORTANTI ATTORI regionali stanno provando a cogliere l’occasione per diminuire la propria dipendenza da Pechino. E non mancano le tensioni diplomatiche.

Il caso più evidente è quello dell’Australia, tra i primi paesi a chiedere un’indagine internazionale sulle origini del Covid-19. Mossa non gradita al governo cinese, che ha imposto tariffe dell’80,5% sull’import di orzo (già crollato da 1.7 miliardi di dollari a 600 milioni tra 2018 e 2019), e sospeso quello di carne di manzo.

L’ambasciatore Cheng Jingye ha paventato un boicottaggio di turisti, studenti e consumatori. Contromisure che possono fare male, se si considera che Pechino è di gran lunga il primo partner commerciale per l’Australia, dove gli studenti e turisti cinesi rappresentano il 38% e il 15% del totale.

A peggiorare i rapporti, le recenti esercitazioni congiunte tra i militari Usa e di Canberra nel Mar cinese meridionale, mentre il governo di Scott Morrison guarda con sospetto al tentativo di China Mobile di comprare Digicel, il principale network telefonico degli stati del Pacifico.

A PROPOSITO DI TENSIONI marittime, il Vietnam si è fatto più assertivo sulle acque contese, complice anche la presidenza di turno dell’Asean.

Hanoi ha rigettato il divieto di pesca tra maggio e agosto imposto dalla Cina, invitando le sue imbarcazioni a continuare a operare intorno alle isole Paracelso.

L’Indonesia ha invece convocato l’ambasciatore di Pechino per chiarimenti sulla morte di quattro connazionali imbarcati su navi cinesi.

Proprio il Vietnam potrebbe ospitare nuove linee di produzione di aziende giapponesi. Complice l’emergenza sanitaria (che ha causato il rinvio a data da destinarsi della visita di Xi Jinping), Tokyo sta incentivando una politica di «China exit» dal punto di vista economico. Il governo di Abe Shinzo ha approvato un pacchetto di stimolo per sostenere il «ritorno a casa» o la delocalizzazione nel sudest delle imprese nipponiche in Cina. L’obiettivo è quello di avere una maggiore autosufficienza sia in campo sanitario sia in campo tecnologico, anche per evitare eventuali nuove restrizioni di Washington sui prodotti made in China.

L’INDIA PROVA a fare lo stesso. Il piano economico per la ripresa presentato dal primo ministro Narendra Modi intende stimolare la produzione locale e limitare la dipendenza dalla Cina per le catene di approvvigionamento.

Impresa non semplice, se si considera che il 90% dell’import dei farmaci salvavita arriva da lì, così come l’80% dell’equipaggiamento medico e il 30% delle componenti per auto.

Sia Tokyo (la cui intelligence ha rapporti sempre più stretti con l’alleanza anglofona Five Eyes, ufficialmente sul tema Corea del Nord) sia Nuova Dehli sono peraltro coinvolte con Pechino in dispute territoriali tornate d’attualità. Nelle scorse settimane, navi cinesi e giapponesi si sono incrociate intorno alle isole Senkaku (o Diaoyu). E, dopo tre anni di calma, si sono verificati scontri tra militari in più settori del confine conteso sino-indiano.

Modi ha assicurato di volere pace e stabilità ma le opposte narrative nazionaliste e gli interessi non sempre coincidenti rischiano di complicare le relazioni. La grande sfida globale, per Pechino, passa anche attraverso tante piccole sfide «locali».