«È stato come guardare il mondo da una navicella spaziale, e intravedere le parti che lo compongono», racconta Paola Nugnes, senatrice di Sinistra italiana che ha partecipato con una delegazione di parlamentari alla Cop 26.

Che esperienza è stata?
Imponente. Vedere rappresenti nello stesso luogo quasi tutti i paesi delle Nazioni unite, tutti concentrati sullo stesso obiettivo di portata straordinaria: il clima e la salvaguardia del pianeta. Una elefantiaca operazione di coordinamento e diciamolo, di gestione apparente della democrazia, tenere insieme tutte le conferenze e tutte le posizioni su di un unico obiettivo. Appare ancora più chiaro da lì che ci sono disuguaglianze incolmabili, che le colpe dei paesi più potenti ricadono pesantemente proprio sui paesi più deboli ed incolpevoli. Si continua a negare il nesso di casualità sui danni e le perdite. Si continua a spostare la data del fondo di sostegno per i paesi più poveri, e lo si fa da tredici anni. Si continua a valutarlo su base volontaria e solo per la transizione. In una sorta di neocolonialismo climatico si esportano progetti, tecnologie e forniture dai paesi più ricchi ai paesi più poveri, negando la necessità di riparare ai grossissimi danni causati proprio dal modello di sviluppo e sfruttamento cui sembra non si voglia rinunciare.

Questo scenario cosa determina?
I grandi del mondo stanno mettendo in salvo solo loro stessi. Di questo passo si salveranno solo le terre che potranno adattarsi, le economie che ne potranno beneficiare, salvaguardando il modello di sviluppo che rappresentano senza troppe perdite ma approfittando delle nuove opportunità, con pochissima attenzione a quella parte del pianeta che non ce la farà. Puntando ad investire con nuove tecnologie su quei cambiamenti inevitabili per continuare a produrre profitto sempre e comunque solo per la parte del pianeta più ricca. Lo dimostra anche il patto dell’Europa per l’asilo: la Ue si sta organizzando affinché le masse di immigrati climatici si fermino nelle aree limitrofe, anche a costo di consistenti stanziamenti economici si ergono muri reali e fattuali a difesa dei confini.

L’Italia non compare nell’impegno contro il nucleare.
È grave. Non dovremmo dimenticare i due referendum e il fatto che resta il problema delle scorie. Il ministro Cingolani ci ha costretto a tornare a parlare di nucleare, ci conforta la posizione di Germania e Spagna su questo, ma ci preoccupano le dichiarazioni francesi. Abbiamo avuto un incontro della delegazione italiana con i colleghi francesi e il tema principale è stato questo: neanche la Francia ha risolto il problema del Deposito geologico di profondità per rifiuti a media e ad alta attività ma neanche quello meno problematico del Deposito definitivo di superficie per rifiuti a bassa attività. Ma già oggi l’aumento del livello delle acque e delle temperature pare stia rendendo meno sicure alcune centrali, con lo slittamento di alcune faglie, per cui se ne sta valutando la chiusura anticipata.

Che valutazioni dà nello specifico del comportamento dell’Italia?
Lo stesso Cingolani ha voluto tenere una posizione mediana per non essere emarginato dalla discussione. Il che è comprensibile, ma purtroppo temo comunque poco incisivo nella sostanza. Aver portato tutti a convenire sull’obbiettivo di un grado e mezzo senza aver fissato azioni concrete non è un gran risultato. Inoltre, ci sono state delle anomalie sulla presenza italiana a Glasgow, forse dovute alla composizione disomogenea del nostro governo. Pur essendo partner di questa edizione della Cop26, l’Italia non ha nominato un proprio delegato ai tavoli, di conseguenza non era prevista neanche la traduzione italiana nelle sale dove si sono tenuti gli incontri con il presidente Onu e con tutti i delegati chiamati a conferire. L’Italia, infine, non aveva neanche un proprio stand dove ospitare e organizzare eventi e discussioni. Una vera occasione mancata.