È difficile dire quanti conflitti ambientali ci siano nel mondo; eppure mentre si proclama la Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è il suo stato di salute partendo dalle frontiere dell’estrazione dei materiali e energia che alimentano l’attuale economia industriale. Tante guerre silenziate ma da cui nascono anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere.

Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto EJAtlas, l’Atlante Globale di Giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale – Università Autonoma di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitto relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti, e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciute.

Qui presentiamo dieci conflitti emblematici di ingiustizia socioambientale per i meccanismi che li scatenano: distribuzione diseguale dei benefici e degli impatti, mancata partecipazione da parte della comunità locale, violazione delle leggi, accesso alla giustizia, impunità delle imprese, inquinamento, corruzione. Casi in cui l’incremento dell’uso e abuso di risorse dell’economia industriale si unisce in uno spietato cocktail al crescente divario fra arricchiti e impoveriti, alla violazione di diritti umani ed ambientali e alla sistematica impunità delle grandi imprese e apparati statali complici. Essi toccano differenti aree geografiche e tematiche, dal petrolio alle energie rinnovabili.

Si incontrano frequentemente nei paesi del Sud del mondo ma stanno strettamente relazionati con l’alto “metabolismo sociale”, l’uso di materiali e energia che l’economia industriale consuma. Paesi di limitata industrializzazione, come molti andini o centroamericani, soffrono per fenomeni di land grabbing per piantagioni di olio di palma e altri prodotti agricoli per l’esportazione, paesi di attuale industrializzazione come Cina, India, Brasile registrano conflitti sia in centri urbani e produttivi per l’elevato inquinamento ma anche per un “colonialismo interno”. Zone come l’Amazzonia viene sacrificata per l’oligarchia brasiliana, le comunità Adivasi della cintura mineraria dell’Orissa, Chattisgarh e Jharkhand subiscono una violenta militarizzazione per garantire l’accesso alla bauxite e al carbone dell’India, i fiumi della regione himalayana sono deviati nei tunnel delle centrali idroelettriche per fornire elettricità e profitto alle imprese indiane.

Ma conflitti si registrano anche nei Paesi industrializzati, dove particolarmente critici sono i processi di privatizzazione di servizi pubblici, l’apertura di nuove “frontiere estrattive” come le miniere in Grecia o Romania, il fracking in Spagna o Polonia, e i grandi progetti infrastrutturali di trasporto o energia. L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca- A Sud per la produzione di una mappatura nazionale, con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro Paese.

Ma ogni conflitto registrato nell’EJAtlas ha qualcuno che lo denuncia. Spesso sono membri di organizzazioni di base o reti internazionali, che raccolgono testimonianze delle comunità locali e di ricercatori accademici per creare nuovi contro-argomenti. Reclamando una giustizia ambientale, lottano anche per un’economia diversa e per un vivere comune sano. Nonostante repressioni e criminalizzazioni, difendono anche un altro sapere, nato dalle radici profonde della memoria e dal rispetto della sacralità dei territori. Esperienze come l’epidemiologia popolare in Brasile su siti inquinati hanno contribuito a identificare malattie e disturbi non riconosciuti da parte delle autorità. La rilevazione di tracce di petrolio nel bestiame nell’Amazzonia peruviana da parte di abitanti della selva, affiancati da scienziati, ha dimostrato impatti dell’estrazione altrimenti nascosti e ignorati.

Dal conflitto spesso nasce una nuova consapevolezza, si mette in discussione lo status quo e si riconosce che “giustizia” non è solo una compensazione monetaria ma richiede una ridefinizione di relazioni di potere e processi decisionali. Movimenti come i No Tav in Italia, Zad in Francia, gli abitanti di Rosia Montana in Romania, non chiedono solo di fermare un progetto; rappresentano la ricerca e la costruzione quotidiana di una nuova sovranità popolare. Nella resistenza nascono concetti nuovi per denunciare ingiustizie, come la biopirateria o il colonialismo tossico, ma anche un vocabolario che rivendica un futuro con dignità e allegria, come «decrescita», «transition towns», «sumak kawsay» (buen vivir), «sovranità alimentaria» e «energetica».