Secondo la corte d’appello di Milano Silvio Berlusconi non ha commesso il reato di concussione, o quello di induzione indebita, quando telefonò alla questura di Milano per ottenere una procedura difforme dalla legge nei confronti della sua protetta Ruby. Non c’è dubbio che le argomentazioni dei giudici risulteranno, quando le motivazioni della sentenza saranno pubblicate, ineccepibili oltre che fini. Lo stesso non si può dire di una argomentazione di carattere psicologico sostenuta dalla difesa dell’imputato che è francamente irricevibile (nel rispetto del diritto dei cittadini di non sentirsi presi per i fondelli). Secondo questa argomentazione, i funzionari della polizia, che hanno stravolto le prescrizioni della legge nell’interesse dell’allora premier, hanno agito per eccesso di zelo dovuto a una condizione di timore reverenziale e non sotto minaccia esplicita: di conseguenza il comportamento dell’accusato non era illegittimo.
In realtà il timore reverenziale è una disposizione ordinaria dell’animo umano che i potenti attivano regolarmente, tutte le volte che vogliono ottenere dai loro sottoposti ciò che è di loro gradimento. Chi può decidere la carriera (e il destino) di un funzionario statale, nel richiedergli una trasgressione della legge concorre in modo determinante nella configurazione dello stato di soggezione che è necessario perché la richiesta sia accolta. Più urbano è il modo in cui la richiesta è formulata più il condizionamento è forte perché la risposta negativa a una domanda gentile ma decisa (che non ammette dubbi di interpretazione) richiede uno sforzo psicologico maggiore. Una minaccia aperta può mettere chi la riceve nella posizione di legittima difesa, e favorire un suo scatto d’orgoglio, mentre il tono garbato dell’interlocutore gli fa sentire un eventuale rifiuto come reazione eccessiva che lo mette nella posizione dell’aggressore invece che in quella dell’aggredito.
Berlusconi ha inequivocabilmente usato la sua posizione per innescare un timore reverenziale nei suoi interlocutori. La sua invocazione di Mubarak non era strettamente necessaria: è parte del carattere grottesco del personaggio e della sua irresistibile tentazione di prendersi gioco delle istituzioni (a partire dai malcapitati funzionari che ha impunemente umiliato). Sennonché questa aggiunta non necessaria rivela (assieme al sentimento onnipotente di impunità) l’intenzionalità dell’azione induttiva al reato. A meno che Berlusconi non pensasse effettivamente che Ruby fosse la nipote di Mubarak: in tal caso avrebbe potuto ottenere l’assoluzione per manifesta “incapacità di intendere e di volere”, che non è stata, tuttavia, invocata dalla sua difesa né concessa dalla corte.
Si spera che, contrariamente alle voci circolanti, i giudici non abbiano sposato la tesi dell’eccesso di zelo per timore reverenziale inoltrandosi in un terreno scivoloso dove rischiano, a loro volta, di essere considerati eccessivamente zelanti. Tuttavia, a pensarci bene, non sarebbe una cosa sorprendente: non si può escludere che siano stati soggetti a un timore che non aveva come oggetto una qualsivoglia autorità impositiva ma il disordine paventato ogni volta si prospetti un’uscita dalle acque stagnanti in cui l’Italia si sta da tempo acclimatando. Un paese in cui il fatto che il premier chieda a dei funzionari statali di violare la legge è possibile che sia reato come è possibile che non lo sia, vive in prossimità di uno stato psicologico la cui migliore definizione metaforica è la “melma”: il fluire delle emozioni si incaglia nel torbido e tutto fa brodo (brodaglia, per essere più precisi).