Sono diventata giovane da vecchia. Ovvero. Ho trovato l’entusiasmo, quello vero, per i propri sogni, una volta diventata grande. Non so come mai. Non dico di non essere stata spensierata. Lo ero. Vivevo però una dimensione completamente incentrata sul chissenefrega. Ecco. Ho fatto un classico senza godermi i miti. Li studiavo con facilità, per l’interrogazione, e poi li lasciavo lì dove erano. Tra le pagine dei libri. Ho fatto un’università senza desiderarla. Senza rifletterci su, senza correre dietro un’immagine che amavo o che avrei potuto amare di me stessa. Poi, fortunatamente, ho avuto un incontro mistico e la mia vita è cambiata. E ho scoperto cosa volesse dire desiderare, battersi per ciò che si ama, correre rischi, mettersi alla prova. Piangere, ridere, tuffarsi nel vuoto, disperarsi. Per poi sorridere di nuovo. Così, sono, i giovani. Ne ho visti a frotte al Salone del Libro di Torino quest’anno. Tutti lì ad aggirarsi tra gli stand. Con le scuole, principalmente. Baciarsi negli angoli, seduti per terra a mangiare panini urfidi, fare code interminabili per ascoltare qualche conferenza. Sbruffoni. Piccoli, anche se grandi. Ma grandi. Anche se piccoli. A parlarci sono rimasta basita. «Mi piacciono i classici. Ho comprato Verga, ma anche Nietzsche». Avevano i buoni della regione e questo agevolava loro la spesa. Sono ancora pazzi di Harry Potter ma alla maggior parte comprava i tomoni perché «Facciamo il classico» mi ha detto uno. Contento. Ho pensato a quanto poco o niente possiamo permetterci di dire a queste generazioni che, come del resto tutte le generazioni, vengono ferocemente criticate. Per i social? I più invasati del genere sono i vecchi. Stanno tutti lì a incistarsi sulla rete e nel frattempo la demonizzano, ne prendono distanze intellettuali francamente inutili e il ditino lo puntano sul nipotino. E io li guardavo, li ascoltavo e mi chiedevo, da adolescente degli anni ’80, perché anche io non sono stata così? Che passioni avevo? (A parte John Taylor). Quanto tempo ho perso nel cercarmi, dopo, dal momento che ciò che avevo per le mani non sono stata in grado di vivermelo. Ha ragione D’Avenia quando dice «Non vedo davvero quale altro scopo dovrebbe avere una società se non quello di creare speranza negli occhi dei giovani». Che poi basterebbe parlarci davvero, col cuore, che significa mettendosi in gioco, per capire quanto vasto sia il mondo che si apre dentro di loro. E che poi anche solo una briciola, di quel loro mondo creativo, basterebbe a noi per illuminarci la giornata.