Come se non fosse bastata la rivoluzione digitale a mettere in discussione l’industria del cinema (dopo aver sconvolto la musica e l’informazione), l’epidemia di Covid-19 ha contribuito a imporre un’accelerazione a un processo già in corso. Se già l’ascesa della quality tv delle serie e le piattaforme di streaming avevano reso la sala sempre meno centrale nel modello di consumo del film (con annessi dibattiti e rivalità anche accese attorno al tema), la forzata chiusura dei cinema, e la loro faticosa riapertura, sembra aver impresso un colpo decisivo a quella fruizione «cultuale» che aveva caratterizzato la forma d’arte novecentesca par excellence.
In questo frangente, è quanto mai utile rivisitare quel passato, non con il proposito velleitario di farlo rivivere, né con sentimenti di disincantata nostalgia, ma per prenderne il meglio e traghettarlo nella contemporaneità. Su questa strada può essere di preziosa compagnia la recente raccolta di saggi e articoli cinematografici di Franco Cordelli, Che tutto abbraccia I giorni e i film (Falsopiano, pp. 183, € 20,00, con una nota editoriale di Fabio Francione). Non tanto, o non solo, per gli autori o le opere su cui il critico si sofferma nel volume, quanto per il tipo di sguardo che in questa rassegna viene esercitato. Di che sguardo si tratti, lo può suggerire già il titolo stesso. Cordelli lo preleva dal saggio omonimo, dedicato all’amico di una vita e complice nella passione cinematografica, il regista Emidio Greco; lì l’espressione è legata all’immagine «lancinante» della Roma degli anni settanta, «quella che tutto escludeva e che sempre tutto abbraccia». Ma vi si può, forse, riconoscere l’eco eraclitea/nietzscheana di quell’«occhio artistico che tutto abbraccia» che non è solo, mutatis mutandis, l’occhio impersonale del cinema, ma quello del critico che di fronte al film si fa a sua volta creatore e scrittore, più che pallido compilatore di referti sulla bontà o meno di un «prodotto» culturale. Ed è appunto a queste due polarità che si mantiene ancorato lo sguardo di Cordelli: da un lato, la volontà di abbracciare tutto il «fatto» cinematografico, dalle sue declinazioni più sperimentali e avanguardistiche (Warhol, Snow, Robbe-Grillet, per fare solo qualche nome), fino alle ramificazioni dei generi (western, horror, comico, pornografia); dall’altro, l’esigenza di comprendere questa realtà appunto con l’occhio dell’artista, facendone carne per la scrittura, per la riflessione. E con questo, si intuisce anche il senso del sottotitolo (per nulla casuale) del libro, I giorni e i film, sospeso tra Esiodo e Uwe Johnson (autore amato da Cordelli): i film scandiscono i giorni della vita, il cinema si fa scrittura, la scrittura autobiografia. Il rapporto con l’arte, per il critico, diventa tutt’uno con la vita, è vita.
Non a caso, tra i pezzi che rimangono più impressi nella memoria alla chiusura del libro vi sono forse quelli dal taglio più autobiografico, come il magnifico racconto di un dialogo tra Greco, Cordelli e un fidanzatino della nipote di quest’ultimo, soprannominato Django in onore del chitarrista francese di origine sinti, sul rapporto tra Marlene Dietrich e Joseph von Sternberg, racconto che parte con toni leggeri ma che raggiunge il cuore della «vera questione»: «tra il pittore e colui che viene ritratto chi è Dio?». O ancora, in un pezzo su Jean-Marie Straub al Festival di Venezia, una carrellata degna del Welles dell’Infernale Quinlan, che parte inquadrando il lampione distrutto dall’auto di «un congressista piuttosto giovane e quindi allergico al clima del Festival, euforico non si sa se per uso eccessivo di Martini, grappe, whisky ecc. oppure per sbornia altrettanto ovvia di cinema» e si conclude con la rappresentazione dei gironi infernali del Festival, il cui frequentatore tipo è «il critico venuto d’oltralpe per aggiornarci in merito al suo passaggio da Lukács a Freud o Lacan». O ancora, il pezzo accorato – forse il più breve del volume, ma di certo il più intenso – su La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, il regista, scrive Cordelli, «che amo come nessun altro»: un pezzo in cui il critico non risparmia all’autore obiezioni dure, per alcuni dialoghi che, tecnicamente, si direbbe privi di «sottotesto», o per certe troppo eloquenti scelte di messinscena, come ad esempio l’abbigliamento «esistenzialista» del protagonista Alain Delon/Daniele Dominici; ma nelle medesime pagine, con la stessa rabbia, verrebbe da dire, di chi poco prima non ha perdonato difetti a un amore, Cordelli esalta il modo unico con cui «Zurlini vede le cose, le acciuffa con acutezza, con dannata e divorante sensibilità», paragonando il regista ai pittori che hanno fatto grande l’arte italiana nei secoli.
Già solo da questi brevi cenni si può intuire quanto, dello sguardo di Franco Cordelli, è da riportare al nostro presente di fruitori di cinema: l’allegrezza di una curiosità senza snobismo, che non teme di rapportarsi a nulla (vale la pena annotare questa considerazione dell’autore, contenuta nel saggio sul cinema comico: «Supporre che se un film appare chiuso in un orizzonte di banalità, questo film allora non ha grandezza, questo è non aver capito l’essenza dell’arte moderna, e in particolare del cinema»); e la serietà, che spesso ormai dimentichiamo negli scroll sulle piattaforme di streaming, di un rapporto con il cinema che non sia sempre o solo da inquadrare nella forma dell’intrattenimento, ma da leggere come lotta con l’angelo, come esperienza di un’arte che nutre e sfida la vita.