Habemus Brexit. Mentre scriviamo, le meningi di numerosi funzionari, deputati e ambasciatori di tutti e 28 i paesi sono assorte in una febbrile scansione dell’accordo di libero scambio annunciato la vigilia di Natale fra Uk e Ue a caccia di magagne, vuoi mimetizzate, vuoi nascoste. Si perché dal 24 dicembre scorso e a 1645 giorni dal referendum del 23 giugno 2016, la Gran Bretagna e l’Unione Europea hanno firmato il trattato che regolerà il commercio fra le parti allo scadere del periodo di transizione, il primo gennaio prossimo: 1246 pagine che dovrebbero valere un indotto di non meno di 750 miliardi di euro annui.

THE DEAL IS DONE, cinguettava già il pomeriggio della vigilia un Boris Johnson beatamente dimentico di quanto ormai il deal fosse degenerato in ordeal, (calvario). E come alla fine di ogni calvario che non finisca con la morte, al sollievo dell’Ue corrisponde l’ostentata soddisfazione del premier britannico.
I divorziati hanno alfine stabilito che eviteranno di infliggersi i temuti dazi e balzelli sulle reciproche esportazioni, ma non il rischio di caos e/o rallentamenti vistosi al flusso doganale delle merci per via del conseguente sovraccarico burocratico. Per evitare detti dazi saranno necessarie delle regole di origine, una sorta di consorzio che stabilisca lo standard qualitativo dei prodotti.

Dopo essersi presi a pesci in faccia in una settimana natalizia di tregenda epidemiologica dove le friabili scogliere di Dover rischiavano di sbriciolarsi anzitempo sotto il peso di migliaia di Tir bloccati e di camionisti inferociti, l’accordo – frutto delle frenetiche e stressanti 2.000 ore di colloqui in nove mesi da parte di duecento funzionari spesso reciprocamente sospettosi – è stato raggiunto dopo ultimissime e defatiganti trattative su sgombri e merluzzi.

Johnson ha quindi proceduto immediatamente a presentarlo come strenna nazional-sovranista ai sostenitori del leave come agli ultrà brexittieri da cui è ormai indistinguibile, che lo stanno scrutinando guardinghi. Con Keir Starmer deciso perché anche il Labour lo voti, si prevede che passerà comodamente quando il parlamento sarà richiamato dalla pausa natalizia il prossimo trenta dicembre per ratificarlo. L’Ue lo farà, invece, a gennaio.

QUESTA È E RIMANE, checché se ne dica, una Brexit «dura»: un autentico trionfo del mercato del pesce su quello azionario, nel quale un’ideologia otto-novecentesca ha prevalso sull’«interesse economico nazionale», vede Londra sacrificare il proprio passaporto per vendere servizi finanziari nel continente in cambio di una sovranità «ittica» sulle proprie acque territoriali che alla fine ha pesato anche più di quella giuridica (l’affrancamento dalle corti europee), e che peraltro non otterrà pienamente prima del giugno 2026, giacché nel frattempo i pescatori europei dovranno riconsegnare soltanto il 25% del pescato in acque britanniche (Londra era partita col chiedere l’80%).

Con la libertà di movimento e l’introduzione del sistema a punti di tipo australiano, dal primo gennaio finisce definitivamente anche il programma Erasmus, che sarà sostituito da uno nazionale che recherà il nome di una personalità doverosamente inglese come Alan Turing. Dal canto suo, l’Ue ha rinunciato al diritto infelicemente definito cross retaliation (ritorsione reciproca), vale a dire la possibilità di comminare ingenti dazi ai britannici qualora questi si macchiassero di concorrenza sleale infrangendo le regole dell’accordo sul mercato del lavoro, ambiente ecc.

COME PER IL VACCINO anti-Covid, per ottenere quest’accordo si è fatto in dieci mesi il lavoro negoziale di dieci anni; e come per il vaccino, si spera che funzioni e non contenga magagne. Ma mentre ambo le parti sono assorte nell’imprimere alla propria versione dei fatti lo spin necessario, e al netto dei (ot)toni trionfalistici di Johnson come di quelli, mesti, di von der Leyen, conviene riflettere sul fatto che Regno Unito e Ue hanno appena negoziato a sangue un accordo di libero scambio fra partner storici con lo scopo precipuo di rendere detto scambio semi-libero.

E che ci siano riusciti grazie – e non nonostante – alla famigerata variante Covid, che stava dimostrando tragicamente il costo in termini di caos di un allontanamento brusco, reciso, ulteriore del paese dall’Europa.