Forse, oggi, Manu Chao, scrivendo Welcome to Tijuana, invece che «tequila, sexo y marijuana» canterebbe di «cerveza, viagra, y migrantes». Continua ad essere vero, però, che per il «coyote non esiste dogana». I coyote sono persone reali, spesso dipinte come leggendarie, che si “offrono” di portare migranti al di là del confine, superando controlli, muri e barriere, in cambio di un lauto compenso. Molte volte chi si affida ai coyote compra solo l’illusione del “sogno americano”. Spesso, molto spesso, non appena toccato il territorio statunitense, quando il coyote abbandona i suoi clienti, si viene fermati ed espulsi. Così l’incubo del muro da scavalcare, o delle estenuanti attese per avere una risposta per entrare legalmente nella terra della bandiera a stelle e strisce, ricomincia.

SOLO A TIJUANA, sono diverse migliaia le persone che anelano al passaggio. Aspettano dormendo in uno dei 30 albergues, spazi d’accoglienza pubblici o privati che mettono un tetto e dei bagni a disposizione. Alcuni sono grandi come un campo da basket, e a 5 metri da terra sono coperti da una lamina di alluminio che ripara dalla pioggia, ma non dal sole. Sotto ci sono delle tende, un bagno per uomini e uno per donne. Poi c’è la Casa del Migrante, nata per dare ospitalità ai deportati, uomini espulsi dagli Usa. Dall’arrivo delle carovane lo scorso novembre si è trasformata per dare ospitalità anche a famiglie, donne e bambini. Qui ci sono stanze con letti. Si è ospitati per 45 giorni. Ogni giorno alle 17.00 viene servita la cena, per gli ospiti della casa e per chi ci ha dormito fino a due mesi prima.

Oltre agli albergues, c’è la cosiddetta Piccola Haiti, un quartiere abitato da haitiani, cubani, guatelmatechi e honduregni ai margini della città. Una comunità, nata grazie al supporto del pastore evangelico Gustavo Banda, che continua a funzionare con una sorta di autogestione. Non mancano esperienze solidali di inspirazione anarchica, come il progetto Caracoles. Uno spazio, che in Italia chiameremmo centro sociale, che si trova in piena zona turistica, davanti al museo della cera. Dal novembre 2018, dal lunedì al giovedì, tra le 14.00 e le 17.00 va in scena l’iniziativa comida no bomba: volontari e volontarie di ogni provenienza preparano il pranzo per chi non ha i soldi per poterselo permettere.

L’EMERGENZA CREATA dalle carovane dello scorso anno ha spinto attivisti e attiviste a implementare l’azione sociale dello spazio, mettendo a disposizione dei migranti posti letto. Il pranzo, però, è aperto a chiunque, anche a chi vive la stringente povertà nella città, pur non essendo migrante.

Il “sogno americano” per tutti corrisponde al passaggio al di là del confine. San Ysidro è il valico di frontiera più attraversato al mondo. Chi dal Messico marcia verso nord è sottoposto a controlli estenuanti. Sia che provi a valicare il confine a piedi che in macchina. Il passaggio pedonale resta comunque più rapido di quello con i mezzi. Chi prova ad andare negli States in macchina sa che starà in coda diverse ore. Il passaporto non conta, anche i gringos di ritorno devono attendere. Per scendere invece verso sud, e entrare in Messico, è molto rapido e semplice. I controlli sono quasi inesistenti.

TIJUANA È DIVENTATA quello che è oggi durante il periodo del proibizionismo statunitense. A partire dagli anni ’20, tutto ciò che al di là del confine era vietato, e che tutt’ora è mal considerato, si è spostato a Tijuana. Questa città è il rifugio peccatorum d’oltre confine, quello che succede a Tijuana resta nelle sue vie. Al passaggio pedonale, sponda messicana, si vedono lussuose limousine in attesa di facoltosi statunitensi diretti in uno dei tanti strip club della zona rossa della città. I clienti passano la frontiera, salgono sull’auto e vengono portati nel bordello di turno, consumano droghe, alcool e il corpo delle lavoratrici sessuali, e poi tornano da dove sono venuti. Altri arrivano con il loro piccolo trolley, cercano un taxi, vanno in uno dei tanti alberghi della zona centro. Passano due, tre giorni in città. Le farmacie pubblicizzano con veemenza la vendita del viagra. Non tutti, però, comprano il Sildenafil per poi dirigersi nella zona rossa, un congiunto di poche vie dove è vietato fare foto e video. Alcuni vengono per farsi curare i denti. A Tijuana ci sono centinaia di dentisti che garantiscono ai cittadini Usa cure di qualità a basso costo. Altri fanno shopping, o vanno alla spiaggia di Rosalito, o in una delle tante birrerie artigianali che stanno fiorendo nelle zone “in” della quarta città del Messico.

 

 

TANTI E TANTE semplicemente passano un week end nella città più pericolosa al mondo. Ma la pericolosità, qui come in altre zone del paese, ha una dimensione di classe. Morti, sparatorie, omicidi, e violenza sono relegati in periferia, il centro è lo spazio del turismo e i turisti non devono sapere che a Tijuana si muore per pochi pesos. Come in tutto il Messico, i luoghi dedicati al turismo sono sicuri per i turisti, e per chi può permettersi di vivere lì.

La presenza di stranieri è una forma di ricchezza per tutti, anche e soprattutto per le economie illegali. In centro, al massimo, si può incontrare qualche piccolo borseggiatore e qualche ubriaco molesto. Poi ci sono le zone residenziali della città, dove è più facile imbattersi in una targa statunitense che messicana. “Zona Rio” o “Zona Chapulpetec” sono tranquille, anche se nessuno a Tijuana ti dirà mai che una zona è davvero tranquilla al 100%. Difficile pensare che questa sia una casualità, e che non sia l’incontro tra gli interessi diversificati tra economie legali, illegali, e la politica che può finalmente narrare di una pacificazione imposta.

Fuori dal centro e dalle zone ricche e turistiche, soprattutto nella zona est, quella dove sono cresciute le maquilladoras, la storia è totalmente diversa: sono aree off limits, non ci si entra se non scortati da qualcuno di conosciuto, e se ci si entra si deve essere pronti a non uscirne. Chi vive le colonie della zona est non parla inglese, non ha nessun documento che gli agevoli il passaggio del confine, e solitamente non frequenta il centro della città. È in questa parte della città che la morte è all’ordine del giorno, non per cause naturali.

LA DIMENSIONE DI CLASSE a Tijuana disegna muri e possibilità, permette di essere una persona cosmopolita che parla due lingue, così come di essere un reietto che muore o uccide per un pugno di pesos. Chi vive a Tijuana vive dentro un costante scontro di classe. Chi ha la possibilità di comprare una televisione o di andare a scuola impara velocemente a parlare in “americano”. Anzi spesso la sua lingua è un incrocio tra le due lingue e sempre più spesso possiede una carta migratoria che, senza bisogno di visto, gli permette di arrivare fino a San Diego, ma non oltre, per 10 anni. Chi è confinato nella povertà vive in modo completamente diverso, è escluso da tutto. Lavora per pochi pesos in una delle tante fabbriche di sfruttamento ai margini della città.

TIjuana è giovane, ha poco più di cent’anni. Sono pochissimi i cittadini tijuanensi nati in loco. La maggioranza della popolazione è fatta da chi a Tijuana è arrivato per necessità. Quasi tutti ripetono di vivere più vicino a Los Angeles che a Città del Messico. Non è un caso che lo stato della Baja California non sia mai stato attraversato dai movimenti sociali messicani, nemmeno dalla rivoluzione di Zapata e Villa. Forse anche per questo non sono troppo interessati alla politica nazionale. Più che della vittoria elettorale di Andrés Manuel Lopez Obrador, parlano della sconfitta del Pan alla guida dello stato dopo oltre 30 anni.

 

 

Il personaggio qui è Jorge Hank Rhon, ex sindaco della città, candidato a governatore dello stato diverse volte sconfitto e presidente della locale squadra di calcio. Hank e la sua storia rappresentano uno spaccato del potere della città e dello stato: un uomo multimilionario che con la sua impresa Caliente ha favorito il pullullare di casinò; un personaggio invischiato in inchieste per traffico di animali, omicidio di giornalisti e narcotraffico e autore di frasi come «le donne sono il mio animale preferito».

NONOSTANTE TUTTO QUESTO a Tijuana c’è una generazione, per lo più under 30, di tijuanensi doc, i primi a nascere a Tijuana, che vuole rompere il monopolio narrativo della città della perdizione statunitense, così come quello della città inerte, incapace di essere accogliente verso i migranti, nonostante una popolazione composta prevalentemente da immigrati. Ma soprattutto i giovani abitanti di Tijuana vogliono una città che sia capace di garantire una vita tranquilla a tutti gli abitanti, superando i muri, non fisici, che riempiono la città.