Il 3 dicembre 1978 i tamburi neri di Montevideo suonarono per l’ultima volta. Centinaia di uruguaiani dalla pelle nera, con i loro vicini di casa provenienti da ogni parte d’Europa, sfilarono per le strade della capitale del più piccolo paese d’America Latina in segno di lutto, danzando il candombe, come appreso dai propri avi sbarcati in catene a partire dal 1680.

Il conventillo di Risso dell’antica calle Cuareim, nel popolare barrio Sur di Montevideo, dal 1885 principale simbolo della cultura afrouruguaiana, immagine di un paese nato dall’importazione forzata di schiavi, risultato di problematiche convivenze ma anche di straordinari episodi di solidarietà di classe, veniva demolito per sempre. Una damnatio memoriae imposta dalla Giunta militare nell’ottica di un piano urbanistico dettato dalla volontà di ripulire la città, evitare l’esperienza destabilizzante del “diverso”, relegandolo, anche fisicamente, ai margini di una società civile non più disposta a tollerarne l’imbarazzante presenza.

Una rimozione forzata della Storia attuata attraverso un piano sistematico di criminalizzazione della povertà mescolato con buone dosi di retorica sul rispetto della “legalità”, promozione del “decoro” cittadino e lotta al “degrado”. Stessa sorte toccò, un mese dopo, allo storico conventillo Ansina. Quasi un secolo dopo la sua costruzione, il razzismo, la speculazione edilizia, il desiderio di proiettarsi in un orizzonte turistico moderno, insieme agli interessi economici di una classe dirigente ossessionata dall’idea di proiettarsi nell’universo dei “grandi” della Terra, rimuovevano per sempre questo eversivo emblema di convivenza.

Anche la moderna toponomastica infierì sul defunto, convertendo la poetica strada Cuareim («delle pietre» in lingua indigena guaraní) nel più sibilinno calle Zelmar Michelini. A partire da allora, il conventillo di Risso, un enorme edificio su due piani, di 40 stanze costruite intorno a un lungo patio interno dotato di 32 lavatoi, 2 bagni e una cisterna, secondo la tipica struttura della cloaca a cielo aperto, resterà nel ricordo di tutti come il Medio Mundo.

Quasi trent’anni anni dopo la sua demolizione, nel 2006, le autorità uruguaiane, in colpevole ritardo sulla storia, dichiaravano il 3 novembre come «Día nacional del candombe, la cultura afrouruguaya y la equidad racial». Meno melancolico del blues o del jazz, più viscerale del reggae, meno libidinoso del samba, della salsa o del merengue, il candombe continua a essere un grande sconosciuto in Europa.

Come milonga e tango, anche il termine candombe, di medesima origine bantù, apparso per la prima volta su un quotidiano uruguaiano del 1834, nasce per indicare un antico luogo di riunione frequentato da neri. Con il tempo, in senso lato, finì per denotare una forma coreutico e musicale urbana tipica della società nera di Montevideo. Una danza e una musica popolare nata nei barrios Sur e Palermo, i due quartieri a più alta densità “nera”, e poi estesa a tutto il paese. Oggi, malgrado ripetuti tentativi storici di occultarlo, fisicamente e culturalmente, quasi un uruguaiano su dieci ha origini nere, secondo stime ufficiali del 2006.

Centro di smistamento

Furono i portoghesi i primi a intuire le enormi e sciagurate potenzialità redditizie dell’importazione di manodopera schiavile. Fu così che dal 1680, per un secolo, la città di Colonia del Sacramento, piccola enclave portoghese della Banda Oriental del Rio de la Plata, divenne il principale centro di smistamento di schiavi destinati soprattutto al Brasile. Un business al quale dal 1743 si aggiunsero gli spagnoli attraverso la neonata città di Montevideo.

Essendo l’Uruguay un paese privo delle grandi piantagioni tropicali di canna da zucchero, cotone, caffè e cacao tipiche delle regioni più a nord del continente, allo stesso modo carente della grande industria mineraria delle zone montuose dell’entroterra di Bolivia, Perù e Argentina, la maggior parte degli schiavi verrà destinata agli altri paesi latinoamericani. Per decreto reale la futura capitale uruguaiana diventerà nel 1791 l’unico porto autorizzato a censire i nuovi arrivi da destinare a tutto il Cono Sur.

Il processo di integrazione fu lento e, inevitabilmente come altrove, assai discutibile. Dalle timide aperture dell’esercito alla “razza nera”” per far fronte all’endemica penuria di carne da cannone del 1801 (impedendone comunque la promozione ai ranghi più alti), passando per l’Indipendenza del 1813, la legge del 1825 sulla libertà dei “ventri” (secondo cui solo i figli delle schiave sarebbero stati liberi, ma solamente a partire dai 20 anni i maschi e a 16 le femmine: un doppio trucco delle élite per non privarsi di un’enorme quantità di manodopera a basso costo), la Costituzione del 1830 fino ad arrivare alla definitiva abolizione della schiavitù del 1853. L’emancipazione definitiva, ma anche la progressiva scomparsa, incomincia con la grande “alluvione migratoria” europea della seconda metà dell’Ottocento. Nel corso dei decenni la popolazione afrouruguaiana finirà così per diluirsi inesorabilmente, passando dal 26% dei primi del XIX secolo al 2.3% dei residenti secondo il censo del 1954.

Importati da paesi come Mozambico, Congo e Angola, al loro arrivo sulle coste atlantiche dell’America Latina gli schiavi venivano suddivisi approssimativamente in “nazioni” da parte degli stessi scafisti, secondo una passione classificatoria ricca di pregiudizi, strumentale, arbitraria, in piena sintonia con il positivismo antropologico delle scienze sociali di allora.

Un enorme equivoco

Un’invenzione della tradizione che causò un enorme equivoco nella stessa autopercezione di molti afrouruguaiani rispetto alla propria provenienza. Ad ogni modo queste “nazioni” furono mantenute in vita come cellula base (in sostituzione della famiglia, clan e tribù tradizionali) da parte dello Stato come strumento di controllo, secondo la logica del divide et impera. Ogni nazione, paragonabile a una sorta di associazione di mutua assistenza, aveva i propri re e ministri. In queste, prima in strada, poi al chiuso dei conventillos, a causa delle leggi di ordine pubblico, si perpetravano riti e cerimonie di antica origine che scandivano la quotidianità delle antiche tribù, filtrati dalla convivenza con le forme del cattolicesimo imposto dalle autorità. Un sincretismo straordinario di animismo, madonne nere, ex voto, balli, canti, rituali scaramantici la cui pubblicità, benché normalmente vietata, in occasione di puntuali cerimonie cristiane poteva finalmente tornare alla luce per liberarne la profonda carica eversiva.

Il cerimoniale veniva inaugurato dall’arrivo di un re e di una regina per ogni nazione che precedevano il ballo, accompagnati rispettivamente da due ministri. Facevano poi il loro ingresso i suonatori di percussioni, i danzatori e il resto delle comparse. Una serie di riti identitari finalizzati a rinnovare il senso di appartenenza che, con il tempo, perso ogni legame con la religione, finirono per convertirsi in forme tipicamente profane.

Con l’abolizione della schiavitù in Brasile del 1888 l’emigrazione nera in Uruguay ebbe un duro colpo, finendo di lì a breve per interrompersi definitivamente. Fu così che queste riunioni di nazioni cominciarono a decadere fino a sparire definitivamente a partire dal 1890. Da allora sarà il carnevale a raccoglierne l’eredità.

40 giorni di festa nell’estate australe, in cui si scende in strada per ballare al ritmo del candombe e della murga. Suonatori e danzatori di ogni età, sesso, colore e rango sociale si ritrovano per le strade del paese, sui celebri tablados, a tributare onori al dio Momo, il re del carnevale. Migliaia di persone travestite da mama vieja, el escobero o el gramillero – maschere tipiche, in memoria del lavoro degli schiavi – che il giorno del desfile de llamadas, istituzionalizzato dalle autorità cittadine nel 1956 nel secondo fine settimana di carnevale (i prossimi 4 e 5 febbraio, ndr), attraversano i quartieri di Montevideo per percorrere al suono del chicho, piano e repique la calle Isla de Flores tra i quartieri Sur e Palermo.

Da re Momo al mercato discografico

Una musica che negli anni Trenta affascinò immediatamente grandi pionieri del tango come Francisco Canaro e Pintín Castellanos a tal punto da inserirlo nei programmi musicali delle loro orchestre destinate a far ballare i rampolli dell’alta società rioplatense.

Con la bonanza degli anni ’40 e ’50, il neonato mercato discografico, con il suo gusto per l’esotico massificato, riconobbe in interpreti come Alberto Castillo, Romeo Gavioli e Lágrima Ríos («la dama del candombe») gli alfieri più rappresentativi di un genere che sembrava rinascere. Fu poi la volta della musica tropicale che ne incorporò le sonorità offrendogli nuovi margini di crescita e la possibilità di varcare le frontiere del Rio de la Plata, grazie a gruppi come NegroCan, la Compañía Uruguay-Candombe, il Grupo Folklórico Candangro e il Conjunto Bantú.

Con l’invasione del pop britannico dei primi anni ’60 il candombe cadde in un repentino letargo. Come altrove, la musica popolare cessava così di essere un fatto sociale, scompariva dalle radio e dai primi canali tv, per convertirsi in un fenomeno d’ascolto, destinato alle sale da concerto, i teatri e qualche riunione di pochi intenditori.

Per quanto riguarda il candombe bisogna notare che furono in gran parte gli stessi neri a rifiutarlo, spinti dal tentativo di rimuovere le proprie tradizioni, mossi dal pudore e dalla vergogna nei confronti delle proprie origini, cercando di assimilarsi forzatamente a una società distratta e difficilmente disposta ad accoglierli. Furono giovani artisti dell’avanguardia uruguaiana come i fratelli Hugo e Osvaldo Fattoruso, Rubén Rada e Ringo Thielmann con la banda Opa a riscoprire il candombe come revival, in un originale formato beat e psichedelico. Allo stesso tempo, negli anni ’70, la nascita del movimento della Nuova canzone popolare comportò per il candombe una rinnovata primavera, grazie a grandi interpreti politicamente impegnati come Alfredo Zitarrosa, El Sabalero, Los Olimareños, il duo Larbanois e Carrero fino ai più giovani Jaime Roos, Mariana Ingold, Fernando Cabrera e Tabaré Cardozo.

Dall’istituzione del «Día nacional» fino alla recente inclusione nella lista dei patrimoni immateriali dell’Umanità dell’Unesco (2009) e della Nazione uruguaiana (2010), il candombe sembra oggi destinato a una nuova giovinezza. Lontano dagli occhi dei turisti continua a vivere in chi lo suona e lo danza come un tempo, in maniera onesta e sincera… A essere morta è in realtà proprio la dimensione agglutinante dei conventillos, quella vita sociale e culturale che lo rese possibile.