Quando una storia vuole dire troppo, finisce per non dire nulla. Rischia di perdersi in intrecci innaturali di realtà costrette e supposizioni. In Frammenti di Haifa (Fila37, pp. 184, euro 14) la scrittrice palestinese cittadina israeliana Khulud Khamis infila tutto. Ma riesce a non farlo pesare e a dare leggerezza alla scrittura, scorrevolezza ad un racconto denso. Perché in questo romanzo non manca nulla: c’è l’occupazione militare dei Territori Palestinesi Occupati, c’è quella identitaria dentro lo Stato di Israele, c’è l’amore e la scoperta della sessualità omosessuale, c’è il rapporto con il genitore e la lotta per l’indipendenza della donna, c’è l’impegno politico e le aspirazioni artistiche, c’è la trasformazione fisica e culturale delle città, c’è la divisione surreale di un popolo prima unito.

A tenere insieme i tanti pezzi – frammenti, appunto, di storie e Storia – è la vita di Maisoon, giovane donna palestinese di Haifa, città della Galilea nel nord di Israele. Maisoon disegna e produce gioielli, vive sola in un appartamento sconclusionato nel suq di Haifa, nel quartiere palestinese di Wadi Nisnas. Da due anni ama Ziyad, relazione complicata non tanto (o non solo) per questioni religiose – lei cristiana, lui musulmano – quanto dal timore soffocante e paralizzante di finire invischiata in una rete che la priverà della sua sudata indipendenza.

Khamis sceglie con cura i propri personaggi, i tanti che scorrono tra le pagine e nella quotidianità di Maisoon. Ognuno di loro è la precisa rappresentazione di un determinato tratto della questione palestinese. Anche le loro vite, così, ne diventano frammenti: Shahd, giovane palestinese di un campo profughi della Cisgiordania, aspirante dottoressa, è la lotta di base, l’esclusione di una fetta di popolo, la distanza imposta con il mondo che sta al di là del muro; Amalia, donna israeliana che accoglie Maisoon nel suo negozio di gioielli, è l’altro, il popolo nuovo che l’ha costretta all’angolo; Majid, il padre, ex prigioniero ora impiegato di banca, è la resistenza che fu e la disillusione che è, lo scontro tra generazioni di occupati che non sanno più dialogare; Ziyad è il dolore che paralizza, l’apatia, la convinzione della sconfitta.

Ma è proprio nel rapporto con il padre che sta il filo conduttore, la linea che unisce i puntini: Maisoon lo scopre (apparentemente) per caso, tra le poesie e i racconti che scriveva da giovane, in un amore perduto e negli anni dietro le sbarre che lo hanno svuotato. Sono i versi delle poesie di Majid che, alla fine, le sanno indicare una potenziale via d’uscita da una vita frammentata, una soluzione alla ricerca spasmodica di un’identità che sembra essere stata sradicata, seppur sia solo nascosta. Maisoon la trova nei gioielli che crea, espressione di un bisogno, quello dell’essere. Una delle tante forme di resistenza alla scomparsa e all’oblio.

Khamis sviscera dubbi e necessità che sono universali, intrecciandoli con naturalezza a quelli propri di un popolo che vive una situazione unica nella storia, profugo nel mondo e ospite a casa propria. La scrittrice non si nasconde, elimina ogni possibile paravento che mitizzi la Palestina e la sua gente, ma la mostra nuda con il proprio bagaglio di dolore, errori, distacchi, resistenze.

E alla fine, nel suo romanzo d’esordio, Khulud Khamis fa un passo in più. Propone una soluzione usando Haifa, «la sposa del mare», per imbastirla: una città trasformata da 70 anni di Stato di Israele, attaccata con i denti a quel che resta della quotidianità palestinese che fu, costretta ad assistere alla scomparsa lenta e inesorabile della sua fisicità (le case palestinesi abbandonate, quelle demolite), è oggi teatro di un rapporto nuovo. Quello tra l’israeliana Amalia e la palestinese Maisoon è una relazione alla pari che si rafforza proprio nel momento in cui la giovane decide di imporre la propria identità e non temerla più. Lo fa con collane e orecchini ricavati da vecchie monete palestinesi e che raccontano la sua storia, quella di Majid e di Shahd. È nella sfida accettata da Amalia di aprirsi all’altro che si intravede la via d’uscita: uno Stato unico in cui i due popoli convivano, uguali sulla stessa terra.