«Serve tutta la predilezione possibile all’incontro vertibile». Finisce così uno dei tanti interventi-pensieri-soliloqui-monologhi-riflessioni di Aprimi Cielo. Dieci anni di raccoglimento articolato, l’ultimo libro di Alessandro Bergonzoni (Bompiani, pp. 207, euro 16).

UN TESTO FORMIDABILE che incrocia, con crocevia verbali, verità cruciali sul nostro dover essere. Ricordarci ad esempio che «i terremoti sono di gratitudine zero» significa porci di fronte perlomeno al dato di fatto che le parole parlano da sé, ci parlano, non nel senso che si rivolgono a noi, ma che ci usano, ci spintonano, ci invogliano a vedere quel che esse stesse, negli usi quotidiani, non critici, triti, non sanno più dire.

Bergonzoni, con spettacoli e libri – tra cui opere importantissime come Bastasse grondare oppure Non ardo dal desiderio di diventare uomo finché posso essere anche donna bambino animale o cosa – si fa parlare, diviene strumento della magmaticità magnanima del linguaggio, che soltanto al di fuori dei percorsi noti può additare il vero, sapendolo fluttuante, mai fisso, mai deciso.

E allora, nella mutevolezza del verbo da cui davvero tutto ha principio, c’è spazio per affondare la penna nelle ferite dell’Io, «come un cacciatore in preda a se stesso (così impara)», o anche solo per sostenere la levità dell’essere con suoni dai significati inaspettati. Perché le voci e/o i rumori, li chiamava Manganelli, sono il corrispettivo del nostro sapere quel che ancora non sappiamo: sono il mistero o il dubbio buffo che ci propone l’infinita combinatoria linguistica, parallela alla sostenibile pluralità dell’essere.

Il libro, con i suoi giochi di pensiero tramite la parola, sfiora il misterico del religioso, ma di una religione dissociata dal verbo in quanto rivelatore di sacrosante staticità («Quando mi dicono “prego” non so mai se sono davanti a persone gentili o religiose»). Lo sforzo è invece quello di fuoriuscire da un linguaggio che non parla più, per finire ad essere sempre più vivi.

DENTRO E FUORI il linguaggio, dunque, dentro e fuori la comunicativa, non per galleggiare ma per andare a fondo senza sprofondare, e dunque per divenire profondità: «Da quando mi è morto il cane non lo porto più fuori ma dentro». Il tutto, insomma, per tornare a capire che siamo «vulcani senza guinzaglio».

Una delle nostre consapevolezze perdute, per via dell’uso e l’abuso del linguaggio ridotto a formule ripetitive e bollite, è che la lingua ci penetra. Ce l’hanno spiegato tanti filosofi del linguaggio, ed è vero ancor di più in un’era triste in cui vince sempre chi «non spiccica una parola».

Ma, direbbe forse un Bergonzoni o un Joyce, perché spiccicarle le parole? Appiccichiamole, uniamole, con la delicatezza dell’umanità, perché cullare è umano, ci ricorda. Unire le parole significa unire i nostri mondi, e non c’è bisogno di scomodare Wittgenstein per capirlo. In inglese word (parola) e world (mondo) sono divisi dalla lettera L, la L di linguaggio. Una liquida consonante che consente di dirimere e di far travasare. Di unire e unirci. Ma contro chi? Non soltanto contro il solito nemico della semplificazione, dell’azzeramento della capacità critica, ma contro la morte dell’essere «saputi», come lo fa tutta la grande letteratura (altra L di un certo rispetto).

Nei suoi interventi Bergonzoni ha spesso invitato a trovarci «in punto di vita» e non il suo contrario, ovvero a ritrovarci in quel «salto in altro» che corrisponde alla nostra sfida di vivere.

È questo un libro che andrebbe portato nelle scuole, alle elementari, alle medie, perché ci insegna che parlare in modo inatteso non è una resa, un arrendersi, ma ci rende il senso di un altro mondo inteso come mondo altro, in cui «le scuole di pensiero» non siano più «la prova morente dell’esistenza di Io».

L’OPERAZIONE che propone Bergonzoni non è matematica, ma metafisica e fisica al contempo, nasce da una fisiologia del linguaggio su cui avrebbe molto da dire anche la neurolinguistica. Ci dice che le parole non sono quel che vogliamo noi, ma quel che vogliono loro: «spazi bianchi» da riempire di «parole scure, e con quella scure trancia di netto le tue certezze, fanne tanti dubbi, milioni di dubbi». Perché «il dubbio è una ricchezza» che permetterà non di «uscire pazzo», ma di «tornare pazzo». Pazzia pura? Sì, perché «c’è bisogno di purezza, inconscio intonso, dire, rarefare, lettere e ripensamento».