Cosa succede quando un gigante della telefonia, con il quartiere generale a Dallas, compra un gigante dello spettacolo i cui uffici si dividono tra Los Angeles e New York e i rispettivi salotti? Parte della risposta era in un trafiletto in basso, sulla prima pagina della sezione business del New York Times di ieri: le dimissioni di Richard Pepler, chief executive di HBO e uno dei creativi più importanti della tv degli ultimi vent’ anni. L’uscita di scena dell’uomo che ha fatto della domenica sera un rituale della tv di qualità e ha promosso la realizzazione di serie storiche come Sex and the City, The Sopranos, Game of Thrones e Curb Your Enthusiasm …ha seguito di pochi giorni la sentenza con cui un tribunale del District of Columbia dava ufficialmente il via libera all’acquisto di Time-Warner da parte di AT&T.

IL BUON SENSO direbbe che un nuovo padrone, totalmente inesperto nel medium in cui ha appena investito 80 miliardi di dollari, uomini come Pepler dovrebbe tenerli stretti. Non John Stanley, il dirigente ATT deputato ai vertici della neo battezzata Warner Media che, oltre ad aver già fatto battute sul fatto che i profitti di HBO non erano soddisfacenti, avrebbe deciso di accorpare, sotto la direzione di un executive di sua scelta, il più boutique dei canali via cavo ad altre reti tv del nuovo gruppo, come Tcm e Tnt -in nome dell’eufemismo classico che si invoca per i merger, «l’efficienza» e dietro a cui si nascondo inevitabilmente tagli di personale e di qualità. L’arrivo di ATT alla redini dello studio che fu di Jack Warner si era già sentito i mesi scorsi -sulla East Coast con la chiusura dell’amatissimo canale via streaming Filmstruck, una partnership WB con la prestigiosa etichetta di dvd Criterion Collection, giudicato dei nuovi boss «troppo di nicchia» per fatturare secondo i loro standard. A quella chiusura era seguita una piccola rivolta della comunità cinefila internazionale (la buona notizia è che Criterion sta lavorando per riaprire in proprio).

ACCOLTO a bocca aperta, invece, nello studio di Burbank il licenziamento in tronco di un gruppo storico di executive – da leader di produzione a stagionati uffici stampa. Chissà se la campagna Oscar di A Star Is Born, partita benissimo e inspiegabilmente sfumata nel quasi nulla, avrebbe avuto un altro esito potendo giovare della loro lunga esperienza sul campo delle guerre per la statuetta. Certo, il film è molto bello e meritava di più. I prossimi mesi ci diranno di più su come i filistini della telefonia, arrivati sulla cresta dello tsunami dello streaming intendono adattare al proprio modello una delle proprietà più importanti della storia di Hollywood. Purtroppo gli inizi non sono incoraggianti. E purtroppo non si tratta di un caso isolato.

A QUALCHE chilometro da Burbank, a Century City, centinaia di impiegati della Fox stanno aspettando di capire il loro destino dopo il takeover della Disney. C’è chi ha già firmato contratti con il nuovo studio, che è ancora nel limbo. E se essere divorati da Topolino, almeno sulla carta, sembra meglio di finire nella pancia di una compagnia di telefoni del Texas, qui il problema delle sovrapposizioni di ruolo, e quindi dei possibili licenziamenti, è ancora più grosso. «Entro un paio d’anni questa città si ridurrà di un terzo» mi diceva un’amica executive della Fox cui è già stato dato un nuovo contratto. Ma anche chi è stato già garantito il traghettamento alla Disney, vive nell’incertezza: storicamente tra i compratori più attivi al Sundance Film Festival, quest’anno la Searchlight (l’etichetta arthouse della Fox e quella che vince gli Oscar) è rimasta in panchina – in attesa di capire come si configurerà nuovo ordine. Un articolo approfondito e preoccupante, pubblicato sul New York Times di qualche settimana fa, tracciava un quadro molto difficile alla Paramount. Sarà quello il prossimo studio a cadere in mani poco salubri?

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