Insieme si allenano, portano oltre l’asticella dello sforzo; scandiscono il numero delle flessioni in coro, spingono il corpo al limite su e giù per le gradinate, lo incastrano a fianco agli altri nel bisonte metallico della macchina di mischia. Dividono la tavola, la convivialità del terzo tempo, i video dei match e le lezioni tattiche. E sempre insieme si addormentano nelle brandine contigue, la biancheria stesa tra i fori delle grate, la luce del giorno che filtra nelle stanze dietro le sbarre blu, tra corridoi in penombra e cancelli governati dal tintinnio delle chiavi delle guardie; il caffè in un bicchierino di plastica, una sigaretta, una lettera da leggere e i passi da contare nelle ore d’aria, la vista filtrata, interrotta da reticolati e muri.
«In Italia sono 9 gli istituti penitenziari che sperimentano il rugby con l’obiettivo del recupero fisico, sociale ed educativo dei giovani detenuti», si legge nell’incipit su fondo nero de La prima meta, documentario di Enza Negroni, molto amato a dicembre al 57º Festival dei Popoli e il 10 maggio a «Il cinema che cambia», continuum romano della rassegna, all’Apollo 11, dopo la tappa a Visions du Réel a Nyon.
A Bologna è invece il carcere di cui si narra nel film, nei luoghi della regista (esordio di finzione nel ’96 con Jack Frusciante è uscito dal gruppo), dove ha intrapreso la sua ricerca sul documentario – in questo caso è anche produttrice con Giovanna Canè – mentre i colori della squadra sono quelli della Giallo Dozza: 40 giocatori tra i 20 e i 35 anni, condanne dai 4 anni all’ergastolo; militano in C2 e il loro allenatore è Max Zancuoghi.
Il soggetto, per la complessità dei mondi narrati e loro punti di scontro e di tangenza, è dunque di per sé avvincente, pure non basterebbe, se non ci fosse un certo sguardo a fare questo film, anche fisicamente impegnativo – lunghi mesi per le stanze del carcere, tra allenamenti, nel rugby non ci sono stop per pioggia o neve, e partite – uno sguardo discreto e partecipe, capace di dare pennellate sulle singole vite (la maggior parte immigrate), ma per lo più teso a privilegiare la dimensione corale di entrambe le esperienze, carceraria e rugbistica. In particolare, rispetto a quest’ultima, sia per chi conosce a fondo questo sport (ringrazio Carmelo Marcelli per le suggestioni preziose), sia per chi vi si accosta per la prima volta, è arduo non farsi coinvolgere dallo spirito di solidarietà che emerge dal film e che fa del rugby un mondo ancora a sé: un universo di corpi, come verità che il documentario abbraccia in toto, tra ridondanza fisica, rabbia e regole da non violare, rispetto degli avversari e corridoio per omaggiarli, bende, grovigli umani e Voltaren; le luci malinconiche degli allenamenti notturni (la fotografia è di Roberto Cimatti, le musiche di Giorgio Canali e MaterElettrica), i contrasti, il timore di un abbandono.
«I Giallo Dozza giocano sempre in casa», ma distesi in cerchio, uno accanto all’altro, fanno fiorire mete ancora più grandi e, dal basso, nei salti, sembrano librarsi oltre la ringhiera…