Sono passati 9 anni da quando Diaz nel Febbraio del 2012 vinse il Premio del Pubblico al Festival del cinema di Berlino e l’effetto che il film ha sugli spettatori è sempre lo stesso: finiscono i titoli di coda e restano in silenzio, sotto shock. Quando mi capita di essere lì, dopo un po’ mi si chiedono spiegazioni e analisi storico-politiche di come si è arrivati a quei giorni maledetti. Ma io non sono uno storico e nemmeno un politico, così finisco spesso per pensare che se tanta gente ha bisogno ancora di analisi e spiegazioni ciò si deve senz’altro al tempo che passa inesorabile ma, probabilmente, anche al dibattito troppo ripiegato su sé stesso che la frastagliata galassia reduce da quei fatti non ha potuto o saputo o voluto condividere con il resto del mondo.

Qualche sera fa, presenziando ad una manifestazione sul G8 in un parco romano mi è stato chiesto da una gentilissima moderatrice se penso ancora che «sia stato giusto aver rappresentato la violenza estrema alla quale la polizia sottopose i manifestanti» durante quei giorni infausti. La ragazza ha aggiunto che forse le parole possono più delle immagini quasi che le immagini siano misteriosamente non adatte ad esplicitare tutto l’immenso dolore e la rabbia scaturite dalla violenta repressione. Ma cosa vuol dire? E’ forse una critica non tanto velata per aver «visualizzato» la terrificante violenza che si è scatenata sui manifestanti, cioè sulle vittime. Una cosa ritenuta «immorale», evidentemente. Devo dire che è un progresso perché nelle critiche fatte «da sinistra» al mio film siamo passati dalla iniziale complicità sic et simpliciter con la polizia, alla fraudolenta rimozione dei nomi dei poliziotti dal film ventilate in altisonanti reprimende da parte di una frazione del GSF, al tentativo di arricchirmi sulla pelle di chi ha preso le botte… e siamo così finalmente giunti all’immorale rappresentazione della violenza poliziesca.

Non si perdona al film di aver sbattuto in faccia al mondo intero la inermità delle vittime e la istituzionale imbattibilità del carnefice. E lo capisco, perché una antropologia arcaico-cattolica come la nostra, che impregna di sé anche la sinistra, spegne proprio in certe contorsioni psicologiche ed intellettuali ogni anelito rivoluzionario. Ed è bene dirselo fino in fondo perché chi (come il sottoscritto) sostiene la sostanziale bontà della Costituzione nata dalla Resistenza deve prima o poi anche ammettere di non riuscire a spiegarsi come mai lo Stato sorto da quella Costituente sprigioni talvolta cose così terribili che vanno a punteggiare la storia del dopoguerra, come macigni proiettati in alto da un vulcano e ricaduti rovinosamente sulla testa di tutti noi: le stragi di Stato con aerei e stazioni saltate in aria, la repressione dei movimenti fino a Genova2001, i «casi» Cucchi, Aldrovandi… per giungere alle navi di disperati bloccate in mare e alle persone affogate per mancanza di soccorso.

Diaz avrà i suoi difetti, certamente non è saltato fuori dalla testa di Giove. È figlio di una «forzatura» perché è un film che non doveva essere fatto. Quindi fin prima di nascere ha dovuto lottare e la battaglia che ha combattuto fin dall’inizio, e continua a combattere, è proprio quella contro ogni forma di totemismo dello Stato. Ha dovuto rompere ogni tabù dovendo rappresentarlo invece come un demone, una macchina che può schiacciare destini, idee e desideri di futuro dei cittadini che dovrebbe «proteggere». Perché lo Stato ha come prima funzione il suo stesso perpetuarsi nel tempo, nella forma e nella sostanza, non certo quello di proteggere i cittadini.

Ecco perché il tabù della tortura è difficilmente rappresentabile, perché insozza il totem dello Stato che tutto può e tutto risolve. Una sorta di pregiudizio o di illusione ben incistata nelle nostre coscienze assieme all’idea, davvero infantile, che le forze dell’ordine siano o debbano essere effettivamente sempre dalla parte del bene. Casomai dovrebbero essere dalla parte della legge, sempre che essa sia «giusta». Ma questo infantilismo si manifestò anche a Genova quando si decise dagli stessi organizzatori del social forum che dovessero essere soltanto le forze dell’ordine a «gestire» la piazza, scambiando l’Italia per «La città del sole» di Campanella, dove gli «offiziali» vigilano placidamente sulla libertà e la giustizia «entro le mura».

Questo immaginario fanciullesco, che prevede che tutto possa e debba essere risolto dallo Stato come un «padre», al cinema finisce generalmente per sposarsi con l’idea della forza gangsteristica, giustificata se non esaltata da imponenti narrazioni sociali, letterarie e cinematografiche. Si dice che i cattivi siano più interessanti dei buoni… bene, forse metà del cinema mondiale è nella sostanza basato su questo conflitto. Prendiamo il più importante, quello made in USA: lo stato (la polizia) vs il gangster. In questa dinamica la società non esiste, c’è il poliziotto contro il malvivente. Ecco che quella del gangster è l’unica ribellione possibile per questo tipo di immaginario, anzi l’unica accettabile perché specchio della necessità della potenza statale.

Non è invece accettata quella del conflitto sociale o politico. Al massimo un film può trattare di uno «sbandato», o un gruppo di irregolari disadattati o peggio di pericolosi anarchici che vogliono insidiare la sacra proprietà privata, cosa che fu imputata a Sacco e Vanzetti. Gente che non dirà mai «io amo questo paese» perché vuole «un altro paese».

Il poliziotto o il gangster lo possono invece legittimamente dire strappando applausi alla folla entusiasta della partita scontata. Il ribelle sociale e lo sbandato sono fuori da questo gioco. Invece la rabbia individualistica del gangster è legittimata dallo stato stesso, oltre che dalla coscienza collettiva, in fondo il gangster cosa vuole? Una bella macchina, una bella donna, una bella casa, il potere di fare ciò che gli pare, esattamente come tutti gli altri cittadini maschi adulti e bianchi. Il gangster poi sa quali rischi corre, dinanzi a sé ha lo stato che, tra l’altro, ha il legittimo monopolio della violenza. E quando lo Stato pratica la tortura per salvare il popolo dai cattivi che vengono da fuori (russi, islamisti o marziani) fa bene, cos’altro dovrebbe fare? Ed ecco che la tortura non può essere davvero messa in discussione, perché essa è necessaria a mantenere il «monopolio della violenza» da parte delle Stato. Esattamente come da noi, il paese che die’ i natali a Cesare Beccaria.

Ma violenza e tortura sono due cose diverse, o no? A Genova ce l’avevano «con noi», mica con i fascisti, quella non è tortura, è repressione del dissenso. Ok, allora vuol dire che se lo stato esercitasse la tortura contro i «fascisti» sarebbe equanime. Ciò renderebbe la tortura accettabile come nei kolossal hollywoodiani? E a Santa Maria Capua Vetere cos’è? È tortura o repressione? Certo, a spaccare il capello in quattro può essere entrambe le cose tenendole distinte.

Mi sono chiesto spesso: ma tanti miei amici e compagni perché non accettano di fare un discorso chiaro ed esplicito contro la tortura? Temo che la risposta stia nella radice della domanda che viene surrettiziamente posta a me, in quanto regista del film Diaz, cioè se «penso ancora sia stato giusto rappresentare la violenza estrema alla quale la polizia sottopose i manifestanti» durante quei giorni inumani. La mia risposta è sì, lo penso ancora… voi, care compagne e cari compagni, continuate a torcere lo sguardo e a pensare che ci abbiano picchiato “perché avevamo ragione”, cosa certamente vera. Io con cocciutaggine continuerò a pensare e a dire che vi hanno torturato, non semplicemente picchiato, e lo hanno fatto perché «si può fare». Lo Stato può farlo nella pressoché totale oggettiva impunità di chi lo rappresenta e può farlo contro i camorristi, gli islamisti e i gentili manifestanti pacifisti, dipende solo dalle circostanze.

«Chi è lo Stato?» chiedevano i torturatori a Bolzaneto. I torturati dovevano rispondere: «La polizia!» altrimenti erano botte. Ecco perché Diaz racconta non il «G8 delle idee», che tra l’altro sono in gran parte anche le mie, ma il G8 della TORTURA, perché è attraverso di essa che si riduce l’essere umano a cosa. Sono un po’ stupido forse, non capisco proprio di cos’altro di più importante avrebbe dovuto trattare il film. E mi chiedo: se non si ha la lucidità di distinguere tra violenza estetizzata (quella dei gangsters tanto amati) e violenza antipaticamente analizzata, sezionata, dopo ben 20 anni di mugugni intorno alla sconfitta, forse si può iniziare a dire che «il problema» non è solo del regista che ha fatto Diaz, il quale in fin dei conti ha fatto solo un film. Il problema potrebbe essere anche, forse, di chi guarda ma non vede.