Uscito presso le edizioni Canicola di Bologna lo scorso 10 maggio, L’uomo senza talento è un vero e proprio evento editoriale, di nicchia certo, ma pur sempre una pubblicazione fondamentale per conoscere ed approfondire un importante pezzo di storia del fumetto giapponese. Si tratta di un gekiga, fumetto che a differenza del manga ha toni più seri e adulti, creato da Yoshiharu Tsuge nel 1986, uno degli ultimi lavori pubblicati dall’autore, al tempo cinquantenne.

 

 

Tsuge è una figura leggendaria nell’arcipelago e non solo nel mondo del fumetto, si tratta di un artista infatti che, pur con una produzione non vastissima, ha influenzato e continua ancora ad influenzare il milieu artistico sperimentale ed underground del Sol Levante.
Dopo il debutto giovanissimo nei primi anni cinquanta, Tsuge attraversa una crisi creativa ed esistenziale che lo porta ad un tentativo di suicidio nel 1962 da cui riesce ad uscire grazie alla collaborazione con due giganti del genere (gekiga) come Shigeru Mizuki e Sampei Shirato ed alla sua collaborazione con la rivista «Garo», faro delle sperimentazione fumettistica dalla metà degli anni sessanta in poi.

 

 

Da questa collaborazione nasce nel 1968 quello che in Giappone è forse il suo lavoro più noto, Nejishiki, fumetto di stampo surrealista e fortemente onirico, durante i settanta altri problemi di salute lo tengono lontano dal disegno, ma ritorna sul finire del decennio con brevi storie ancora più estreme, kafkiane ed erotiche e con una forza d’impatto unica. Tsuge appende la matita al chiodo nel 1987 ma fra i suoi ultimi lavori spicca senza dubbio L’uomo senza talento, la prima traduzione in italiano di un’opera del giapponese, che fino a qualche anno addietro si rifiutava di veder tradotte le sue opere in altre lingue. Dopo l’edizione francese allora arriva anche questa italiana ad opera di Vincenzo Filosa, appassionato di Tsuge e a sua volta fumettista, che ci restitiusce a pieno tutta la tragica e disincantata visione del mondo dell’autore nipponico.

 

 

Siamo di fronte non più alle ambientazioni surreali degli anni sessanta e settanta, il picco del periodo secondo chi scrive è la breve storiella Soto no fukurami, ma ad un lavoro ottenuto quasi per essicazione della realtà, interiore ed esteriore. Come i pittori classici di sansuiga, Tsuge con pochi tratti essenziali e con una narrazione cruda e scarna, ci racconta la storia, autobiografica, di un fumettista fallito ed in povertà che, con una moglie che lo odia ed un figlio triste, cerca di sopravvivere vendendo pietre.

 

 

 

Il mondo slavato a popolato di perdenti, più che presenze tutti i personaggi sono ombre che altro non aspettano se non di svanire, sembra essere una lunghissima e deprimente periferia senza età e tempo in cui il nostro protagonista si rifiuta di continuare a creare manga e preferisce barcamenarsi con i più improbabili lavori. Dalle parole e dai disegni traspare con delicatezza ma allo stesso tempo con una sorta di lucida rassegnazione, tutta la disperazione di esistere che deve aver attanagliato lo stesso Tsuge nei suoi periodi più bui. Non è tanto il suicidio la fine o il fine a cui tende il protagonista, suicidio a cui si nega per colpa del piccolo figlioletto, quanto uno svanire nell’oblio come un oggetto inanimato fra gli altri.

 

 

 

Ecco allora l’attrazione per le pietre ed il loro anodino essere, ma anche l’ultimo bellissimo capitoletto dedicato alla figura del poeta viandante Inoue Seigetsu, morto come un escremento o un rifiuto, ma capace di lasciare poesie che ancora oggi sprigionano vita

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