Codice rosso come emergenza, codice nero come violenza. Il documentario Black Code, Canada 2016, inedito in Italia, viene al momento proiettato in paesi di lingua anglofona, la prima a New York avverrà il 14 giugno all’interno dello Human Rights Watch Film Festival. Black Code segue casi di censura con conseguenze mortali in diversi paesi, esplora il potere della rete mostrando come la sorveglianza digitale possa avere effetti distruttivi in particolare sui diritti civili e sugli attivisti.

Il documentario sia apre dal Bahnhof data center di Stoccolma, il primo fornitore d’accesso di Wikileaks e uno dei luoghi dove fisicamente risiede internet. Il fondatore racconta di come si sia opposto alla polizia svedese quando gli è stato chiesto di cedere i dati dei suoi clienti. Quando si è rifiutato la polizia è arrivata a minacciarlo di avere una diretta responsabilità nel caso fosse successo un attentato terroristico in Svezia.

IL PRIMO CASO di censura è in Tibet, dove i monaci in esilio a Dharamsala tentano di aggirare l’apparato di controllo del governo cinese per trasmettere e ricevere informazioni sensibili, la repressione digitale si esprime con il social onnipresente «wechat» cui nessuno può fare a meno, un firewall restrittivo e l’uso di malware oltre che del manganello.

In Pakistan viene raccontato il caso di Sabeen Mahmud, blogger attivista dei diritti umani la quale viene uccisa a colpi di pistola nel 2015 mentre ritorna dal dibattito da lei organizzato sul conflitto in Belucistan. Nei mesi precedenti era stata oggetto di violenti attacchi sui social network.

In Etiopia il caso dell’attivista politico Tadesse Kersmo in esilio in UK, sorvegliato dal governo Etiope attraverso l’uso del captatore informatico Finfisher ci traghetta verso l’azienda Italiana Hacking Team la quale produce altri Sistemi di controllo remoti, chiamati Galileo e Da Vinci, in vendita a governi e istituzioni in tutto il mondo allo scopo di intercettare le comunicazioni private da computer o telefonini di chi viene considerato dissidente. In Siria il giornalista Wjd Dhnie racconta come sia stato arrestato e torturato in conseguenza di opinioni espresse attraverso Facebook.

BLACK CODE è diretto, fotografato e prodotto da Nicholas de Pencier e basato sul libro omonimo di Ronald Deibert, professore di Scienze Politiche e direttore del Citizen lab a Toronto che si occupa di monitorare l’impatto del controllo dell’informazione sui diritti umani. Intervistato, il regista ci racconta di come il documentario non abbia ancora una previsione di uscita in Italia ma sarà comunque fruibile attraverso i servizi di streaming.

«Ho deciso nel film di concentrarmi sulle persone che hanno vissuto in prima persone le conseguenze dell’oppressione digitale, in paesi dove queste dinamiche sono visibili e tangibili, ma queste dinamiche esistono ovunque e sono quasi più insidiose dove sono nascoste», dice il regista.

« Quando la rete diventa censoria accadono cose cattive. In Siria sembra peggio perché ci sono armi e torture, ma la tecnologia è la stessa che usiamo noi. È lo stesso Facebook, solo che in alcuni luoghi ne vedi le conseguenze brutali. È come un’anteprima di quello che avviene quando in una società si indeboliscono i diritti umani, ma la tecnologia è la stessa», dice John-Scott Railon, ricercatore del Citizen Lab.

L’attenzione al codice nero della rete è condivisa anche nel comunicato del ventesimo hackmeeting, che inizia il 15 giugno in Val Susa.