La settimana scorsa a Roma, spezzettata su vari schermi alternativi (Casa del Cinema, Apollo 11, Libreria Stendhal e Cineclub Detour), c’è stata una personale dei film di Eugène Green, regista francese di origini americane, che dopo una lunga carriera teatrale è passato al cinema. L’occasione è nata dalla pubblicazione di una esauriente intervista ad opera di Federico Francioni, appena pubblicata in volume dalla Casa Editrice Art Digiland.
La singolarità di quest’autore è nel modo di usare le inquadrature, come una successione di tableaux vivant che mettono lo spettatore di fronte ad un’interlocuzione diretta da parte dei personaggi, che in realtà dialogano attraverso la m.d.p., posta in asse tra gli attori, e protagonista invisibile delle inquadrature. In altri termini, Green infrange metodicamente una regola aurea del far cinema, ossia quella di evitare che gli attori guardino in macchina, perché lo sguardo in macchina, che si indirizza direttamente agli occhi dello spettatore, normalmente infrange il perimetro della finzione e ne interrompe la narrazione. In questo caso invece il film conserva una continua prospettiva di «rivelazione» della finzione, attraverso la quale ciò che è rappresentato punta, più che a un racconto, ad un abbandono delle difese razionali da parte dello spettatore, come soggiogato dall’immaterialità del racconto. Ne nasce un effetto di estrema vicinanza ai personaggi, una specie di «partecipazione diretta» alle vicende, come se lo spettatore fosse immerso nella materia di ciò che accade. Nello stesso tempo però il film stabilisce un senso di distacco, come di sospensione, dovuto all’antirealismo della rappresentazione, più vicina alla fruizione pittorica che a quella cinematografica. In altri termini, più che entrare in una storia, la si contempla con una partecipazione distaccata, sottile e sublimata, come di fronte a certi affreschi dei secoli passati.

Il regista ama molto la scrittura, e in almeno due dei suoi film (Toutes les nuits, tratto dalla prima stesura di L’educazione sentimentale di Flaubert, e Correspondences, in cui lo scambio tra i due protagonisti avviene tramite computer) i personaggi comunicano per iscritto invece che attraverso i dialoghi. Ciò crea uno strano effetto di totale immersione nella storia, dovuto alla concentrazione dei personaggi, e al tempo stesso di distanza dalla situazione, poiché lo svolgersi di ciò che avviene è «detto» dalle loro voci spesso fuori campo. Green si appella ad alcuni scrittori, come Flaubert e Pessoa, per creare un cinema in cui la parola sovrasta l’azione (titolo di uno dei suoi film è appunto Faire la parole del 2015) e porta alla luce i segreti moti dell’anima e le oscillazioni del pensiero, ma, se anche i suoi personaggi di giovani un po’ sprovveduti ricordano un po’ quelli di Rohmer, di cui il regista è stato allievo, il grande maestro rivendicato apertamente è Bresson, con la sua capacità di far prevalere il mondo spirituale dei suoi personaggi rispetto agli avvenimenti. Eugène Green, vissuto a Manhattan sino a vent’anni, ha cercato fin dall’adolescenza delle radici diverse dalla società americana, che definisce «barbarica». È quindi andato sui libri alla ricerca della propria identità scoprendo da autodidatta la cultura greca ed ebraica antica, la filosofia di Meister Eckhart (che fonde Aristotele e Agostino con il neoplatonismo) per arrivare ad autori del medioevo, del rinascimento e del barocco, sempre alla ricerca di un pensiero che gli corrisponda, ricerca che si risolve alla fine in una sorta di sincretismo attonito di fronte alle più inattese manifestazioni della vita e della spiritualità. Spesso i suoi personaggi percorrono iter simili al suo, non tanto nell’ambito di una ricerca culturale quanto negli sviluppi inattesi del pensiero, delle emozioni e dell’affettività indotti spesso dal «mondo vivente», che è anche il titolo di un suo film fiabesco in cui appaiono un orco, due bambini prigionieri e due cavalieri che vogliono salvarli.

Ma forse il film che maggiormente esprime l’universo mentale di Green, ed anche il suo preferito, è La religieuse portuguaise del 2009, in cui una giovane attrice francese si reca a Lisbona per recitare in un film e nelle pause della lavorazione ha degli incontri con uomini molto diversi tra loro, senza mai riuscire ad instaurare rapporti durevoli. Ciò che fa vibrare in lei qualcosa è l’incontro con una suora che passa tutte le notti a pregare in una piccola chiesa e che riesce a comunicarle l’emozione del contatto col divino. L’attrice è talmente coinvolta da svenire, uscendo di campo in modo inaspettatamente anomalo dal lato inferiore dello schermo. Negli stessi giorni la protagonista incontra per strada un bambino orfano ed instaura con lui un rapporto finalmente capace di far vibrare in lei un sentimento, in questo caso materno, che la porterà ad adottare il bambino. Lisbona, con il mare, le sue ceramiche azzurre e la musica dei fados fanno da sfondo alla vicenda, ancora una volta un’avventura dello spirito inedita e spiazzante.

Ci sarebbe ancora molto da dire sui film di Eugène Green, sul meticciato della sua cultura esotica che spazia dal pensiero più antico al barocco nella letteratura, nell’architettura e nella pittura, alle molteplici componenti della cultura basca, ma forse è più importante il giudizio autorevole di Jean Luc Godard sul suo cinema: «Amo certi film che hanno avuto poco successo, ma che resistono. Indipendenti, come Toutes les nuits di Eugène Green. È molto interessante, lo metterei in una top 100.»