Non viviamo tempi facili. L’improvvisazione sembra dominare la scena, nel campo delle politiche dei diritti si succedono le più diverse proposte. Un eclettismo che sta lacerando in particolare il campo del pensiero critico. Un punto di vista alternativo a quello dominante è ancora possibile, ma a condizione che sia espressione di una visione d’insieme coerente, che si regga su un’analisi critica del presente, che prospetti soluzioni di rottura basate su principi di fondo e non su esigenze del momento o tatticismi politici. Insomma, è necessario uscire dall’improvvisazione e ritrovare una bussola.

SPEGNIAMO ALLORA i televisori e torniamo a leggere i libri. Alla ricerca di «pensieri forti», in grado di indicarci nuove vie da percorrere per non arrenderci al mesto presente. Non narrazioni fantastiche, pure illusioni, ma possibili modi per tornare a far «vivere la democrazia» e in essa riscoprire il valore dei «beni comuni». E proprio ai temi indicati sono dedicate le ultime riflessioni di Stefano Rodotà, ora pubblicate in due libri postumi.
Il primo (Vivere la democrazia, Laterza, pp. 154, euro 15) è un volume su cui Rodotà stava lavorando da tempo. Non ha fatto in tempo a scrivere l’introduzione che pure aveva immaginato. Bene ha fatto l’editore, in accordo con la famiglia, a proporlo senza l’aggiunta di alcun intervento ulteriore. Sette capitoli su temi tra loro diversi (identità, dignità, diritto al cibo, beni comuni, tecnoscienza), ma esaminati in base a una unitaria visione d’insieme. I vari argomenti indagati risultano, in effetti, tra loro rincorrersi, ordinandosi infine in un coerente quadro unitario.

COSÌ LA RIFLESSIONE sull’«identità» personale – messa in gioco dalle tecnologie ormai in grado di costruire molteplici identità virtuali in sostituzione di quella reale – trova una ricomposizione nel rispetto del principio della dignità umana, considerato limite invalicabile anche per la possibile utilizzazione delle informazioni raccolte dai gestori del web per creare le nostre identità artificiali. Una dignità che disegna una nuova antropologia (l’homo dignus) e che rappresenta il più importante «lascito del costituzionalismo del dopoguerra».
Dovremmo tutti attentamente riflettere sugli effetti di questa rivoluzione della dignità che ha permesso la «costituzionalizzazione della persona». Essa si pone come un vero e proprio contro-paradigma rispetto a quello che appare ancora oggi il modello dominate basato sul diritto escludente della proprietà (il «terribile diritto») e governato da una supposta «dimensione irriducibile dell’economia».

È, POI, L’ATTENZIONE continua al valore della costituzione che risulta collegare ogni argomento analizzato nel libro. Un serrato e insistito rinvio al testo costituzionale, che trae fondamento, non tanto da una generica propensione del giurista a dare credito alla fonte suprema, quanto a una reale convinzione che solo tramite essa sia possibile porre al centro la dimensione dell’umano, la persona concreta e non il soggetto astratto, i suoi bisogni, le trasformazioni stesse del corpo che devono essere rispettate e tutelate. Insomma, la sfida è quella di costruire un «costituzionalismo dei bisogni» che possa prevalere sulle logiche neoliberali dominanti, ingabbiando gli istinti primitivi e i poteri selvaggi.
Si tratta allora di intraprendere una lotta per il diritto il cui esito non può essere dato per scontato, ma che si radica in un movimento storico e ha coordinate precise. Se era dell’Ottocento la centralità del codice civile con le sue logiche proprietarie e individualiste, ora – dopo la rivoluzione della dignità e l’affermarsi della centralità della costituzione – sono altre le priorità: quelle legate ai diritti del cittadino. È il diritto che costituisce le figure sociali e trasforma i soggetti astratti in persone concrete cui devono garantirsi i beni necessari per assicurare a ciascuno – come recita la nostra costituzione – «un’esistenza libera e dignitosa». Da qui la necessità di «riprendere il filo spezzato dell’eguaglianza». Una prospettiva che non può essere messa in discussione dalla logica del mercato che «in nome della produttività e degli imperativi della globalizzazione, prosciuga i diritti».

IL CASO DEL DIRITTO al cibo è sintomatico della impossibilità di affidarsi ai soli meccanismi del mercato per assicurare i beni necessari alla sopravvivenza delle persone. Un’altra prospettiva è pretesa dalla antropologia dell’uomo degno, la quale impone di garantire un accesso sempre più diretto ai beni della vita. A tutti quei beni – il cibo, ma non solo – necessari per garantire il libero sviluppo della personalità.

È QUESTA LA QUESTIONE dei beni comuni. Una nuova dimensione dei diritti definita nei suoi contorni più specifici proprio da Stefano Rodotà. La proposta di introdurre questa categoria di beni (da affiancare a quelli – pubblici e privati – previsti dal codice del 1942) venne formulata dalla Commissione presieduta da Rodotà nel 2007. Da allora «bene comune» è diventato una formula spesso utilizzata, a volte in modo improprio. Ed è per questo che il «padre» dei beni comuni ha dedicato molti dei suoi ultimi sforzi a contrastare un uso troppo ampio dell’espressione, «che può finire per comprometterne l’efficacia e banalizzarne il senso».
A quest’argomento è dedicato, oltre a un ulteriore denso capitolo del volume edito da Laterza, anche il secondo libro curato da Geminello Preterossi e Nicola Capone (I beni comuni. L’inaspettata rinascita degli usi collettivi, La scuola di Pitagora, pp. 144, euro 11).
Nel volume non solo viene pubblicata un’appassionata lezione tenuta nel 2017 da Rodotà presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ma essa è affiancata da numerosi interventi dei partecipanti all’incontro.

LA LETTURA RISULTA di grande interesse proprio per il rigore con cui viene affrontato il tema. Uno sforzo collettivo per non cadere nella trappola del «comune» come «chiave che dovrebbe aprire qualsiasi porta» o legittimare ogni pratica sociale. La sfida dei beni comuni – è questo il senso che può trarsi dell’analisi di Rodotà – deve essere condotta con rigore se vuole conseguire il suo massimo risultato, quello di rompere il dominio della sovranità e della proprietà. Il dibattito che ne è seguito, coordinato da Anna Fava, ha mostrato come questa categoria teorica possa servire per legittimare le esperienze concrete più innovative e di rottura operanti nel contesto amministrativo e politico metropolitano.