Nel 2002, fresco di nomina a segretario del partito comunista cinese Hu Jintao si recò in pellegrinaggio in uno dei luoghi simbolo del maoismo, Xibaipo. Dopo la visita, effettuata nonostante la pioggia e il maltempo, Hu Jintao si fermò a mangiare in un ristorante popolare. Spesa totale registrata: 30 yuan, allora meno di tre euro. Una decade dopo o poxo più, il successore di Hu Jintao, Xi Jinping, oltre a fare numerose sortite di stampo maoista, andrà egli stesso a mangiare in un ristorante popolare, guadagnandosi la fama del «presidente del popolo». E così in passato fecero molti altri leader. Più che populista, questa tendenza della leadership cinese potrebbe essere definita demagogica e paternalista.

Xi Jinping, però, ha fatto alcuni passi in avanti, avvicinandosi per molti elementi a quelli che consideriamo i populisti attuali, principalmente europei. Identificando nei populismi alcune caratteristiche salienti, come lo scontro tra basso e alto, quindi tra popolo e casta o élite, tentazione «carismatica» e quindi la riduzione di tutto a un «Unico», la tendenza a svilire i valori liberal democratici e a considerarli causa dei mali di un paese, insieme a un recupero della sovranità, basato spesso su un passato più immaginato che reale, si potrà osservare come Xi Jinping, che pure è più di chiunque altro élite, essendo un «principino», abbia incarnato queste caratteristiche, contrassegnando così il suo «impero».

Figlio di un padre della patria, Xi Jinping è arrivato al potere nel novembre del 2012. Nel marzo 2013 è stato nominato Presidente della repubblica popolare cinese. Nel tempo ha accumulato un numero di cariche rilevanti, tanto da essere soprannominato il «presidente di tutto», finendo per essere etichettato come il «nucleo», il cuore, del Partito comunista. Xi si è quindi ritagliato di sicuro un posto nel futuro della Cina, tra il pensiero di Mao Zedong, il socialismo con caratteristiche cinesi di Deng, le tre rappresentatività di Jiang Zemin e lo sviluppo scientifico di Hu Jintato.
Il «sogno cinese» di Xi diverrà sicuramente uno dei punti fermi del Partito comunista cinese anche in futuro, tanto che nel marzo 2017 si è cominciato a parlare di una «teoria politica» di Xi che potrebbe finire tra i pilastri del pensiero politico del Partito comunista.

Xi Jinping ha ottenuto la prima posizione nella nomenklatura cinese a seguito di una feroce quanto inaspettata battaglia interna. Una volta conquistata la leadership Xi Jinping ha orchestrato la propria politica su livelli diversi: internamente ha dato il via a una clamorosa campagna anti corruzione che ha portato all’arresto di centinaia di funzionari e a mettere sotto indagine migliaia di persone; si è trattato di una campagna tesa a sostituire gruppi di potere distanti da quelli del nuovo presidente e procedere a deboli riforme di alcuni settori dell’economia nazionale particolarmente afflitti dai fenomeni di corruzione.
Dal punto di vista del Partito ha recuperato alcune parole d’ordine del maoismo, come «la linea di massa» e ha chiesto fedeltà assoluta alla leadership. Analogo discorso è stato fatto rispetto ai militari, alla cui organizzazione Xi Jinping – nel 2017 – ha messo mano.

Ha ampliato i propri poteri di commander in chief, e ha spento – probabilmente – alcuni focolai di potenziali grane, accantonando militari non troppo favorevoli al suo piglio autoritario e decisionista. Analogamente ha aumentato il controllo su internet e sulle app «a rischio» e ha sigillato i media. Sistemate le cose internamente, ha volto lo sguardo all’esterno timbrando la propria presidenza con il progetto della «nuova via della seta». Il «populismo» personale di Xi emerge nel suo recupero dalla storia di un mix di nazionalismo e classici (come Confucio), teso a far ritenere la sua presidenza in continuità non solo con il passato recente ma anche con quello più remoto.

Le tecniche con le quali il presidente e il suo entourage hanno costruito l’attuale «narrazione» si è servita anche di vecchi slogan maoisti insieme con altri paradigmi classici della cultura e della tradizione del paese: «In questo sapiente mescolamento il precedente discorso rivoluzionario viene completamente smontato e scomposto e poi pazientemente ricostruito in una chiave che è spiccatamente riformista, ma senza provocare alcuna apparente cesura con il passato della ortodossia maoista, che rimane per altro in compagnia di Confucio e dei mille altri gloriosi antenati, come una brillante faccia del mutevole prisma della Cina di oggi», hanno scritto Alessandra C. Lavagnino e Bettina Mottura in «Cina e modernità» (Carocci editore, 2016).

È dentro questo prisma che prende forma l’idea di Xi della «nuova via della seta», giocando sulla storia delle tratte commerciali antiche e risalenti a un’indefinita età in cui la Cina giocava un ruolo centrale. Un’idea che ripropone la Cina al centro del mondo dopo un periodo di difficoltà, isolamento e dapprima lento, poi incredibile sviluppo economico.
Questo sguardo all’esterno – per Xi – era necessario: una volta rappresentato «il popolo» contro l’élite corrotta, Xi non poteva più proseguire su quel binario, perché alla fine l’incoerenza della sua lotta contro l’establishment si sarebbe ovviamente esaurita essendo egli stesso un membro di quell’élite.

Per questo il «presidente di tutto» ha guardato all’esterno, identificando nel ruolo globale della Cina una nuova visione del paese, capace – seppure possa apparire contraddittorio – di accontentare anche i nazionalisti contrari a valori occidentali e all’«occidentalizzazione» del paese.
Come possono – dunque – questi due elementi, uno «globale», l’altro «nazionale», non solo convivere ma paradossalmente nutrirsi l’uno dell’altro? Per comprenderlo converrà spogliarsi dell’eurocentrismo classico nell’approccio con l’altro, ancora più scontato quando si tratta di Asia.

La «narrazione politica» degli intellettuali cinesi nazionalisti, infatti, si nutre di elementi relativi a una «rinascita nazionale» che in Cina possiede storicamente un afflato internazionale, globale. Negli ultimi tempi in Cina si sarebbe sviluppata, soprattutto sui social, questa critica violenta nei confronti dei «baizuo» che potremmo definire i «dirittoumanisti», o i «cinesi occidentalizzati». Su OpenDemocracy è stata data questa definizione, ripresa direttamente dai social network.

Ai «baizuo» interessano « solo temi come l’immigrazione, le minoranze, LGBT e l’ambiente, non hanno alcun interesse nei problemi del mondo reale; si tratta di ipocriti fissati con la pace e l’uguaglianza solo per soddisfare i propri sentimenti di superiorità morale. Sono ossessionati dalla correttezza politica, tollerano i valori islamici perché favorevoli al multiculturalismo, sono i classici occidentali ignoranti e arroganti che pensano di essere i salvatori del mondo».

Questo fenomeno, secondo William A. Callahan, della London School of Economics and Political Science, deriverebbe da una sorta di «soft power al contrario» (lui lo chiama «negative soft power»), ovvero un ribaltamento del concetto espresso dal «padre» del soft power Joseph Nye: «L’identità nazionale cinese» secondo Callahan, non sarebbe «semplicemente un riflesso dei valori positivi espressi nella millenaria storia cinese», perché tenderebbe a prendere forma nel suo confronto «contro» i «barbari», siano essi gli Usa, il Giappone o l’Occidente nel suo complesso.

E la leadership di Xi Jinping sembra avere spinto l’identità cinese proprio in questa direzione: a porsi di nuovo al centro del mondo per guidarlo, esaltando le sue differenze rispetto al resto del globo.