Ginevra Bompiani, candidata de La Sinistra alle elezioni europee nell’Italia centrale, nel suo manifesto elettorale mette al centro del suo discorso la terra di tutti, «percorsa da uomini e donne in fuga coi loro bambini, un’immane Troia, vinta dalla furbizia e dall’avidità di popolazioni tecnologicamente più avanzate». Sono inutili i discorsi sull’Europa, sulla comune storia e sul comune destino, senza un’assunzione di responsabilità nei confronti del resto del mondo, senza un abbandono dello sguardo predatorio (incline alla paranoia) che ci ha resi ciechi e diffidenti anche tra di noi.

Non è con gesto frettoloso, azzardato che Bompiani dia tanta importanza a Greta, la «piccola, ignota, malata» svedese che ha alzato la sua voce sopra il rumoroso chiacchiericcio degli adulti che ottunde il loro pensiero. Ci vuole uno sguardo saggio per capire il valore dello «sguardo di prima», lo sguardo che interroga il «senno di poi» e lo obbliga costantemente a riaprirsi e a ridefinirsi. C’è troppa sapienza adulta ammuffita nella vecchia Europa che, guardando all’indietro, ha fatto della dissuasione nei confronti della propria infanzia e adolescenza, la sua forza persuasiva. In un suo recente interessante confronto con Tommaso Di Francesco, su questo giornale, Bompiani ha ripreso la distinzione tra i «felici pochi», i ragazzi, e gli «infelici molti», gli adulti, fatta da Elsa Morante ne Il mondo salvato dai ragazzini.

Può sembrare strano parlare di «felicità» dei ragazzi: non se la passano tanto bene nel nostro mondo e hanno sicuramente molti problemi a starci dentro.
Direi che la felicità, a cui si riferiva Morante, non sta nel non soffrire – la vita è molto dura per la maggioranza dei ragazzi – ma nello sguardo che non è reso opaco dal conformismo, dalla conoscenza che si compiace della sua mancanza di coraggio.

È un bel vivere, anche quando è un vivere duro, non essere schiavi del già visto, già vissuto, già saputo. Lo sguardo dei ragazzi dentro di noi potrebbe salvarci, se i loro gesti, caparbi perché non «esperti”, riuscissero a svegliarlo.

La felicità sofferta dei ragazzi, l’essere vivi e non morti viventi, sta nel non essere contenti di noi, nel rifiuto del nostro inerte presente come loro futuro. Sono pochi perché sono soli. Dispersi in mezzo a una moltitudine di adulti che non capiscono la loro lingua e stanno distruggendo distrattamente i loro luoghi. Tuttavia il loro essere soli e pochi è anche la loro forza, non perché una prospettiva minoritaria, messianica salverà le sorti del mondo, ma perché li protegge dalla legge dei grandi numeri. Lì preserva dalla corruzione dei pensieri e dei sentimenti che l’omologazione comportamentale, l’azione come concezione autoerotica, riflessa in se stessa, della vita, produce, dissolvendo le differenze, le particolarità. Pur sottoposti alla pressione di gusti del vivere uniformanti, fidelizzanti (perché fanno gola ai mercanti) i ragazzi (e lo sguardo aperto al mondo che possono risvegliare in noi) resistono.

La democrazia non si fonda sul potere dei molti indifferenziati -clonati secondo un principio di esistenza inerziale, ripetitiva, predeterminata da calcoli probabilistici sofisticati-, ma su maggioranze fatte di minoranze: di differenti declinazioni sessuali e culturali che dialogando, divergendo e convergendo, si concertano e si intendono.

L’alternativa che incombe, è, come ammonisce Bompiani, peggio del Fascismo, è il totalitarismo prodotto dall’adesione di tutti a modelli anonimi, piatti di esistenza in cui l’infelicità comune generalizzata avvolge in modo mortale governanti e governati, sfruttatori e sfruttati.